L’incontro in Vaticano tra il Papa e migliaia di bambini è stato certo un’iniezione di gioia per i partecipanti e per quanti hanno avuto modo di seguirlo o di averne notizia dai mezzi di comunicazione. Sosta e Ripresa ha già espresso questa gioia e ha già raccontato nell’articolo della vicedirettrice Laura Ciulli, questo particolarissimo incontro nell’Aula Paolo VI in Vaticano (quella delle grandi udienze del Papa, il mercoledì e non solo).
E lo ha fatto rendendo sia il senso universale dell’avvenimento, che ha coinvolto circa 7.500 bambini e bambine di 84 Paesi del mondo, sia sottolineando il significato che ha avuto per i seicento della diocesi di Viterbo, accompagnati dal vescovo Orazio Francesco Piazza, la loro partecipazione.

Ma quando si parla di bambini a degli adulti è forse utile non limitarsi a espressioni di allegria o di compiacimento. Non lo ha fatto il Papa nelle risposte che ha dato alle domande dei bambini in uno scambia a tu per tu nel quale non sono state evitate neppure le questioni più tragiche e più gravi del nostro tempo.

Non lo ha fatto il vescovo Piazza, che dopo l’incontro con il Papa ha tenuto, all’omelia della Messa celebrata nella basilica di San Pietro, una adeguata e sapiente catechesi ai bambini – che si spera assimilata anche e forse soprattutto dagli adulti chiamati a educarli e si spera anche agli adulti che devono–- sul significato della professione di fede che facciamo con il Credo, su come in quella occasione si fosse realizzato il videre Petrum, cioè l’andare dal Papa «per ricevere forza e ispirazione» dalla speciale grazia di stato del suo ministero e del suo magistero, infine sull’imparare a «… mai aver paura, anche quando la Chiesa, le nostre comunità e la nostra vita sono messe alla prova, perché c’è sempre con noi il Signore che ci sostiene e ci protegge».

“Impariamo dai bambini e dalle bambine” era il titolo di questa speciale udienza papale tenuta nell’Aula Paolo VI in Vaticano, con il significativo patrocinio del dicastero della Santa Sede per la Cultura e l’Educazione. Significativo perché proprio di questo abbiamo bisogno, di cultura e di educazione. Perché dai bambini possiamo imparare certamente tanto i bisogni fondamentali quanto la capacità di fare domande su cosa è essenziale fare o non fare. Possiamo imparare l’allegria, l’amicizia spesso spontanea, persino l’amore, quello vero, quello che si affida all’altro, icona della risposta che la Chiesa è chiamata a dare al suo Signore. Ma le risposte che ai bambini dobbiamo sono quelle che appunto educano e che migliorano ogni cultura, non solo quella accademica, ma anche e soprattutto quella che permea le società, le convivenze umane, la vita degli individui e delle famiglie. Ed è troppo spesso avvilita da messaggi impregnati e pervasivi di disvalori, dalla superficialità di tante apparenze esaltate all’egoismo autoreferenziale, dalla spinta a respingere il diverso a quella al consumismo dell’inutile.
E la domanda più difficile è quella da fare agli adulti, da farci noi stessi: ma noi i bambini li vediamo davvero? E dove e come li educhiamo? Anzi, da chi li facciamo educare? Un tempo le cosiddette agenzie educative erano sostanzialmente tre, la famiglia, la scuola e la comunità religiosa, per i cattolici la parrocchia. Non è che funzionassero sempre tutte. Non è che le ingiustizie e le discriminazioni sociali non si ripercuotessero anche su di loro, né purtroppo che in esse non potessero esserci il male e persino degli orrori. Ma in generale avevano almeno coscienza del proprio ruolo e della loro identità valoriale.
Crudeltà sui bambini ci sono sempre state e spesso non si sono volute vedere. Ma oggi non è che non si vedono le eccezioni: non si vede la situazione generale, anche senza arrivare a parlare delle centinaia di milioni di bambini uccisi dai bombardamenti, dalla fame e dalla sete, dall’inquinamento, da malattie che sarebbe facile curare, se la costruzione della pace, l’attenzione ai bisogni primari, la tutela e il risanamento dell’ambiente, il diritto alla salute fossero davvero lo scopo della politica.
Differenze tra ricchi e poveri ci sono sempre state, ma la forbice si è ormai allargata al punto che un migliaio di persone posseggono la metà della ricchezza del mondo e oltre un miliardo non hanno da mangiare. Ed è necessario aggiungere che questa voracità predatoria del denaro non schiaccia più solo il sud devastato del mondo, ma ormai si estende anche nelle nostre società di quel nord che pure è ancora privilegiato, nella nostra Italia, nelle nostre città.
E le vittime principali sono proprio i bambini e i ragazzi. Quelli che guardiamo, quelli che pure rappresentano la nostra speranza, ma che di fatto non vediamo. Non li vediamo nelle famiglie dove non basta uno stipendio e spesso neppure due e i bambini fin da piccoli sono abbandonati con in mano un telefono cellulare che diventa la loro principale occupazione e dove impera la diseducazione dei social colmi di idiozie.
Non li vediamo nelle scuole, dove un tempo si andava con paio di libri e un paio di quaderni e magari un vocabolario quando serviva e ci si faceva comunque un’istruzione e una cultura, mentre oggi già a sei o sette anni arrivavano carichi di zaini che pesano quasi quanto loro. Per non parlare del fatto che le discriminazioni cominciano già lì, se non hai le scarpe più alla moda in quel periodo o se non ti puoi permettere gli accessori “di grido”.
Fanno ancora eccezione le parrocchie, almeno finché ragazzi e bambini frequentano il catechismo e magari entrano in gruppi che educativi sono davvero, per esempio nello scoutismo, ma non solo. Ma anche qui l’abbandono giovanile ha numeri alti, persino molto più alti dell’abbandono scolastico, un’altra delle tragedie dei nostri anni.
Alle domande vere le nostre società non solo non rispondono, ma favoriscono una comunicazione distorsiva (e per inciso spesso sgrammaticata) che spinge bambini e ragazzi a non farle, a non pensare, che spinge noi adulti a non riflettere sul presente che facciamo vivere loro, sul futuro che stiamo loro rubando.
Già, li vediamo i bambini?

Direttore Responsabile
Giornalista professionista, ha lasciato a fine febbraio del 2016, pochi giorni dopo il suo sessantesimo compleanno, L’Osservatore Romano, il giornale della Santa Sede, dove aveva svolto la sua professione negli ultimi trent’anni, occupandosi principalmente di politica internazionale, con particolare attenzione al Sud del mondo.
Ha incominciato la sua professione giornalistica nel 1973, diciassettenne, a L’Avanti, all’epoca quotidiano del Partito Socialista Italiano, con il Direttore Responsabile Franco Gerardi. Nello stesso periodo, fino al 1979, ha collaborato con la rivista Sipario e ha effettuato servizi per l’editrice di cinegiornali 7G.
Ha diretto negli anni 1979-1980 i programmi giornalistici di Radio Lazio, prima emittente radiofonica non pubblica a Roma, producendovi altresì i testi del programma di intrattenimento satirico Caramella.
Ha poi lavorato per l’agenzia di stampa ADISTA, collaborando contemporaneamente con giornali spagnoli e statunitensi.
Nel 1984 ha incominciato a lavorare per la stampa del Vaticano, prima alla Radio Vaticana, dove al lavoro propriamente giornalistico ha affiancato la realizzazione, con altri, di programmi di divulgazione culturale successivamente editi in volume.
All’inizio del 1986 è stato chiamato a L’Osservatore Romano, all’epoca diretto da Mario Agnes, dove si è occupato da prima di cronaca e politica romana e italiana. Successivamente è passato al servizio internazionale, come redattore, inviato e commentatore. La prima metà degli anni Novanta lo ha visto impegnato in prevalenza nel documentare i conflitti nei Balcani e negli anni successivi si è occupato soprattutto del Sud del mondo, in particolare dell’Africa, ma anche dell’America Latina.
Su L’Osservatore Romano ha firmato circa duemila articoli sull’edizione quotidiana e su quelle settimanali. Ha inoltre contribuito alla realizzazione di alcuni numeri de I quaderni de L’Osservatore Romano, collana editoriale sui principali temi di politica, di cultura e di dialogo internazionali.
Collabora con altre testate, cattoliche e non, e con programmi d’informazione radiofonica e televisiva.
È Direttore Responsabile, a titolo gratuito, della rivista Sosta e Ripresa.
Ha insegnato comunicazione e politica internazionale in scuole di giornalismo e ha tenuto master di secondo livello, come professore a contratto, in Università italiane. Ha tenuto corsi, seminari e conferenze in Italia e all’estero. Ha tenuto corsi sull’attività diplomatica della Santa Sede in istituti superiori di cultura in Italia.
È autore di saggi, romanzi, raccolte di poesie, diari di viaggio, testi teatrali. Sue opere sono riportate in antologie poetiche del Novecento.
È tra i fondatori dell’Associazione Amici di Padre Be’ e della Fondazione Padre Bellincampi ONLUS, che si occupano di assistenza all’infanzia, e dell’associazione L.A.W. Legal Aid Worldwide ONLUS, per la tutela giurisdizionale dei diritti dell’uomo. Ha partecipato a progetti sociali per la ricostruzione di Sarajevo. È stato promotore e sostenitore di un progetto di commercio equo e solidale realizzato in Argentina.