Come talora accade alle persone, anche la Populorum progressio, l’enciclica che Paolo VI scrisse quasi sessant’anni fa (porta la data del 26 marzo 1967), mostra oggi la sua piena maturità. Sosta e Ripresa torna a scriverne senza il pretesto di un qualche anniversario “tondo”, ma spinta dalla convinzione che questi decenni abbiano avuto in quel testo una bussola, un manuale di comportamento, un termine di paragone della propria testimonianza in quanti lo considerano tra i maggiori e più validi documenti del Novecento. E se anche talora affiora una qualche stanchezza, se non proprio delusione rispetto all’entusiasmo, per così dire giovanile, con cui in molti ne accolsero la promulgazione, il tempo ha consolidato quelle certezze.

Populorum ProgressioMa sarebbe falso – in quell’epoca come oggi – ritenere quella convinzione generalizzata o almeno maggioritaria. L’enciclica costò infatti dure critiche a quel grande Papa, che in modo davvero profetico arricchì – e non ruppe, come ingenerosamente non pochi uomini di Chiesa sostennero – uno schema consolidato da secoli nel modo di rivolgersi dei Papi alla Chiesa ed al mondo. L’estrema lucidità con la quale affrontava i temi dello sviluppo e del rapporto tra i popoli mostrò un altissimo valore politico, nel senso più nobile del termine. Paolo VI, volgendo lo sguardo sulla scena mondiale profondamente lacerata dall’ingiustizia, si poneva idealmente a fianco dei «popoli della fame» e in pieno periodo di “guerra fredda” respingeva senza equivoci e senza tentennamenti le pretese di quanti volevano ridurre il Papa a “cappellano dell’Occidente” (pretese purtroppo ricorrenti e, in qualche modo, ancora oggi diffuse, anche se il “nemico” non viene più indicato nel comunismo, se non da qualche “politico” italiano di corto respiro, ma magari nell’Islam).

Concilio Vaticano II card. MarchettoAl contrario, la Populorum progressio recepiva profondamente e compiutamente l’impegnativa affermazione del Concilio Vaticano II secondo la quale «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore».

Proprio questa condivisione totale e senza riserve della condizione dell’uomo fonda l’insegnamento della Chiesa, non riconducibile a un mero sistema di principi, ma che si configura come una sorta di mappa per trovare, nel farsi della storia e nei suoi diversi contesti, le strade per dare al disagio e al bisogno concrete e misericordiose risposte di appunto doveroso progressio.

Beatificazione beato Bàrberi, Paolo VICon Paolo VI, la Chiesa avverte e proclama il proprio dovere di pieno coinvolgimento nelle vicende del suo tempo, di mettere insieme il significato letterale, quello teologico e quello pastorale dei principi che da sempre proclama. Nel 1967 come oggi e come sempre, è «un insegnamento di particolare gravità che esige un’applicazione urgente», perché la Chiesa «trasale» davanti al grido d’angoscia degli oppressi ed è sollecitata non a redigere generici programmi d’altrettanto generici soccorsi, ma a chiamare «ciascuno a rispondere con amore al proprio fratello». Il Papa comprese – in un’epoca in cui, almeno in Occidente, quasi ogni valutazione politica si basava sulla contrapposizione Est-Ovest –  che l’asse più critico era quello Nord-Sud, che il crescente e drammatico divario tra i «popoli dell’opulenza» e i «popoli della fame» era il più pericoloso squilibrio, tale da portare, senza adeguati interventi, a una guerra generalizzata e pervasiva.

La storia si è incaricata di dargli ragione: sono stati innescati meccanismi crudeli, come il debito estero, le guerre per procura – combattute prima nel cosiddetto Terzo Mondo e ormai tornate a insanguinare anche l’Europa -, la produzione e il commercio delle armi che ne sono il vero scopo. E le coscienze più oneste e più lucide sanno che proprio il mancato sviluppo ha creato, oltre alla tragedia delle migrazioni obbligate dalla fame e dalla guerra, il terreno in cui si sviluppa il terrorismo.

L’affermazione che «lo sviluppo è il nuovo nome della pace», non è solo una sintesi dell’enciclica, ma anche un indice della sua attualità. Paolo VI sapeva che se non si bonificano le paludi del sottosviluppo e se non si consente ai popoli di raggiungere un giusto sviluppo economico, sociale e politico, l’esito è quello. Gli anni passati dalla pubblicazione sono molti, specie per un’epoca di rapidi e molteplici mutamenti come la nostra. Eppure, rileggendo l’enciclica, si resta stupiti di fronte alla sua lucida analisi, alla sua capacità davvero profetica di parlare anche all’umanità di questo nostro XXI secolo. La Populorum progressio parla della destinazione universale dei beni della creazione; di un’economia al servizio dell’uomo; denuncia le speculazioni e l’esportazione di risorse che accresce ulteriormente la ricchezza dei ricchi e la potenza dei forti, rendendo più pesante la servitù degli oppressi. È quanto stiamo sperimentando nella globalizzazione.

Anche in questo, il tempo ha dato ragione a Paolo VI. Il giudizio storico da cui moveva tutto il ragionamento dell’enciclica mantiene infatti piena rilevanza ancora oggi, con buona pace di criteri di valutazione imperanti al punto da apparire dogmatici, come quelli inneggianti al cosiddetto mercato, vero idolo dei nostri giorni. La meditata scelta di quel grande Pontefice interpella ancora oggi la comunità internazionale, persino con più urgenza, data una situazione anche peggiorata rispetto a quegli anni. Perché se è vero che la bontà dell’albero si riconosce dai frutti e che questi — nell’età della globalizzazione — vanno stimati con metro planetario senza dimenticare nessuno (ma proprio nessuno) degli abitanti del pianeta, forse si dovrà constatare che la Populorum progressio seppe guardare assai più lontano e in profondità di quanto non riescano a vedere tanti rispettati e celebrati analisti dei nostri giorni.

Foto tratte dal web

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