Dopo il primo omicidio dell’umanità (un fratricidio) Caino presa coscienza della gravità del suo delitto esclama: «… chiunque mi incontrerà mi potrà uccidere» (Gn 4, 14). Invece: “Il Signore impose a Caino un segno, perché non lo colpisse chiunque l’avesse incontrato” (Gn 4, 15). Con questo “mito” la Sacra Scrittura, sin dalla Genesi, vuole introdurre il concetto di non combattere la violenza con la violenza, di evitare la vendetta; addirittura è diventato la parola d’ordine del movimento per l’abolizione della pena di morte. Eppure la conclusione è controintuitiva – infatti il Signore gli disse: «Però chiunque ucciderà Caino subirà la vendetta sette volte!» (Gn 4, 15), una conclusione per assurdo legata alla mentalità dell’epoca in cui si formano i primi racconti ispirati della Bibbia.
Sempre nel libro della Genesi questo spirito di giustizia sommaria si inasprisce quando Lamech, diretto discendente di Caino afferma: «Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un mio livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamech settantasette» (Gn 4, 23-24). Il numero sette ritorna in maniera insistente perché nelle antiche civiltà indicava la perfezione, la pienezza. Riecheggiando questi riferimenti della Sacra Scrittura anche nei Vangeli (Mt 18, 21-35) quando si affronta l’argomento del perdono o della reazione ad un torto, Pietro si impegna per sopportare (perdonare) sette volte, mentre Nostro Signore rilancia a “settanta volte sette” implicando un numero illimitato, infinito, di “perdoni” una vera situazione esistenziale. Il Signore Gesù ha incarnato in maniera sublime questo insegnamento, sottoponendosi nella sua passione e morte ad ogni tipo di tormenti e perdonando esplicitamente coloro che lo stavano martirizzando.

Ma tra Caino-Lamech ed il Signore Gesù, nella storia della Rivelazione c’è un graduale progredire del controllo e mitigazione dei rapporti conflittuali tra le persone. Così nel libro del Levitico, attribuito a Mosè prima dell’ingresso degli Israeliti nella Terra Promessa, si afferma la legge del taglione: «Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come egli ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente; gli si farà la stessa lesione che egli ha fatto all’altro» (Lv 24, 19-20) che è già un principio di proporzionalità, un limite al degenerare della vendetta, presente in molte culture antiche più sviluppate. Una ulteriore evoluzione in senso preventivo-positivo è addirittura la ‘regola d’oro’ «non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te» già presente nelle antiche civiltà più sviluppate e che lo stesso Signore Gesù riconosce nei valori dell’Antico Testamento: «Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge ed i Profeti» (Mt 7,12).
Il perdono cristiano è una categoria irraggiungibile nel pensiero umano se non è illuminato dalla fede, ma anche i concetti di etica di reciprocità, faticosamente raggiunti nel processo di umanizzazione, possono venire calpestati dalle stesse culture che sembrano più progredite e illuminate, anzi che si proclamano esempi e fari dell’intera umanità. In questo inizio di XXI secolo cresce sempre più il ricorso alla guerra, che viene non solo praticata e finanziata, ma teorizzata come inevitabile e persino giustificata. La pace tra le nazioni e i popoli sta subendo una catastrofica erosione con i conflitti che non si limitano più situazioni locali o a ideologie contrapposte, ma impegnano, direttamente o per procura, i paesi più progrediti con tecnologie sofisticate che rendono sempre più mortifera la vendetta di Lamech.
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Editore e Direttore Editoriale
Mario Mancini, nato in Roma nel 1943, dopo la laurea in scienze geologiche, con tesi in geofisica, nel 1967 e un anno di insegnamento della matematica in un istituto tecnico industriale romano, svolge per un quinquennio la sua professione di geofisico e sismologo prevalentemente all’estero, in particolare in Papua Nuova Guinea presso il Rabaul Central Volcanological Observatory e in Australia nella sezione aviotrasportata a Canberra, in entrambi i casi per la BMR Australia, intervallando le due esperienze con un viaggio di studio in Giappone nell’estate del 1970.
Rientrato in Italia nel 1972, si impiega come geofisico presso la CMP di Roma per la quale lavora per sei anni, con diversi incarichi in Italia e all’estero.
Fin da liceale, nel 1959, aveva conosciuto Tommasa Alfieri e l’Opera Familia Christi da lei fondata. La figura e la spiritualità della Signorina Masa, come i suoi discepoli chiamavano la Alfieri, resteranno per Mancini un fondamentale riferimento per tutta la vita. Laico consacrato nel gruppo maschile dell’opera già dal 1974, nel 1979 fa la scelta di dedicarsi completamente all’Opera e va a vivere nell’eremo di Sant’Antonio alla Palanzana.
Alla morte della fondatrice, nel 2000, l’intero patrimonio dell’Opera passa per testamento all’associazione Vittorio e Tommasina Alfieri, all’uopo voluta dalla stessa Alfieri e della quale Mancini era stato tra i fondatori.
Per accordi associativi, più tardi violati da persone riuscite ad assumere il controllo dell’associazione, Mancini resta all’Eremo, unica persona a risiedervi in permanenza e a occuparsene.
La nuova gestione dell’associazione, decisa a trasformare la Familia Christi da istituzione prettamente laicale e una confraternita sacerdotale anticonciliare, nel 2005 convince Mancini a dimettersi dall’associazione stessa, in cambio della promessa, purtroppo mai ratificata legalmente, di lasciargli l’Eremo.
Fino fino al 2012, questo luogo, sotto la conduzione di Mancini, che sempre nel 2005 ha fondato l’associazione Amici della Familia Christi e ha registrato presso il Tribunale di Viterbo la testata Sosta e Ripresa, anch’essa fondata da Tommasa Alfieri e della quale Mancini è direttore editoriale, svolge un prezioso compito di Centro di spiritualità e di apertura ecumenica e interreligiosa.
Nel 2012 la confraternita appropriatasi del nome di Familia Christi (poi sciolata dalla Santa Sede con riduzione allo stato laicale di tutti i suoi esponenti) in violazione degli accordi presi a suo tempo ottiene dal Tribunale la restituzione dell’Eremo.
Mancini resta a Viterbo e prosegue il suo impegno ecclesiale in vari uffici diocesani e nel comitato regionale per l’ecumenismo ed il dialogo interreligioso.