Gesù morto, pH laura ciulli

Le parole del Vangelo che accompagnano l’agonia e la morte in croce del Signore – ”… si fece buio su tutta la Terra …” ( Marco 15, 33) – sembrano raccontare questo tempo della nostra vicenda. Come spesso accaduto nella storia dell’umanità, ancora e forse più oggi il Venerdì Santo sembra prolungarsi per mesi, per anni, nello strazio della fame e della sete, che politiche dissennate di incuria per il pianeta continuano ad accrescere, , con carestie implementate e accresciute, delle malattie che diventano sempre meno impegno di cura pubblica e sempre più vantaggio di lucro privato, nella disperazione di un lavoro che manca o che troppo spesso è ridotto a uno sfruttamento penoso con compensi non bastanti a garantire una condizione appena dignitosa. E più di tutto con la follia scellerata della guerra, in cui tutto si perde, con la negazione della pace in cui tutto può essere avviato a sanarsi.

Sì: il mondo e in esso il nostro Paese sprofondano e si trascinano in un Venerdì di dolore, di individualismi impotenti o egoistici, di tradimenti e di violenze, di paure e di divisioni, mentre l’alba della Pasqua sembra lontana. A provocare questo sconforto contribuisce il frastuono di una comunicazione falsificante e cacofonica non solo sui cosiddetti social, ma anche e soprattutto di chi ricopre ruoli di responsabilità istituzionale che imporrebbero verità e impegno e che millantano risultati che la condizione generale smentisce. Ma anche di chi sembra aver dimenticato il bambino, il malato, il vecchio, sui quali si misura la civiltà di un popolo e mostra di curarsi soprattutto dei presunti diritti della sfera sessuale. Basti pensare come sono ridotte la scuola, la sanità e la previdenza, ovviamente pubbliche, perché quelle private prosperano e per chi se le può permettere non ci sono problemi. Non ci sono diritti, ma solo privilegi.

E le parole perdono senso. Da un lato o dall’altro Dio è dimenticato o almeno lo è quella dottrina sociale della Chiesa nella quale si esprime l’identità cattolica, la patria di cui in tanti si riempiono la bocca serve per chiamare alle armi o almeno per indicare un nemico sul quale indirizzare odio e rancore, la famiglia ridotta a una generica forma di convivenza in palese contraddizione, tra l’altro, con il dettato costituzionale, il popolo considerato solo in quanto somma di consumatori e per quanti non possono procurarsi neppure l’essenziale peggio per loro. Si vantano presunti aumenti dell’occupazione e si tralascia che si tratta di lavori incerti e mal pagati.

Fila Mensa Caritas Milano
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L’Istat ha certificato che nel 2023 è aumentato il numero delle persone in povertà assoluta. Ed è significativo che la percentuale maggiore di tale aumento sia rappresentata da famiglie in cui pure c’è una persona che lavora. E intanto si aumenta la spesa per le armi e si contrae la spesa sociale.

Sì, in questo prolungato venerdì di passione il buio continua a incombere su tutti noi. Ma non è – quanti si professano cattolici dovrebbero saperlo – una condizione perpetua. Si può e si deve guardare alla prospettiva della Pasqua, che non è come sembra da ridurre a occasione di dolci con sorpresa, di pranzi particolarmente sostanziosi e di vacanze, ma la celebrazione per i cristiani dell’avvenimento centrale della storia umana.

La Settimana Santa si è aperta con la Domenica delle Palme che ha il suo centro nella Passione del Signore. Scrivevo alcuni anni fa su queste pagine che le fronde di palma o di olivo, come si usa da noi, non sono una sorta di portafortuna o di talismano: sono un omaggio alla regalità di Gesù. Ma questa regalità si manifesta in modo sconcertante sulla croce, rinuncia a schemi di potenza umana, indica per quali strade umanamente illogiche passi la gloria, che diventa misura di confronto e di verifica nel servizio dei fratelli. Proprio in questo misterioso scandalo di umiliazione, di sofferenza, di abbandono totale si compie il disegno salvifico di Dio.

Eppure non dobbiamo nasconderci che nell’impatto con la croce la fede vacilla. Se il patibolo prima schiaccia e poi uccide il Giusto per eccellenza, allora la vicenda umana sembra dar ragione alla potenza dell’ingiustizia, della violenza e della malvagità. Tutti noi siamo investiti dalla domanda inquietante sul cumulo insopportabile di dolore che investe tutti i crocifissi della storia. Dove sono la perfezione, l’onnipotenza, la giustizia di Dio se non interviene in certe situazioni intollerabili?

Ripeto di non avere risposte da darvi né insegnamenti da proporvi. Da fratello tra fratelli, senza una specifica missione ministeriale, posso solo condividere con voi la coscienza che sulla croce muoiono tutte le false immagini di Dio che la mente umana ha partorito e che continuiamo, forse inconsciamente, ad alimentare e che il Vangelo è il vocabolario che possiamo usare per distinguere la differenza tra religiosità e fede che la Pasqua esprime. Religiosità è quanto si concentra nell’apparenza e la giustifica. Spesso in modo positivo, ma talora come in una festa priva di sostanza, della quale misuriamo il godimento, ma non indaghiamo il senso. La religiosità è fatta di liturgie non meditate, che spesso debordano in trionfalismo o, peggio, tracimano in fondamentalismo. La religiosità ci porta sia ad osannare l’entrata di Cristo sia a disconoscerlo. Perché non entra mai nel mistero pasquale.

Per farlo occorre la fede. Per seguire Cristo nella solitudine del Getsèmani, bagnata di sudore di sangue, nel processo fatto al debole, nella tortura, nel disprezzo, nell’essere condotto fuori dalle mura della società, nell’essere ucciso sulla croce, occorre la fede.

E occorre la speranza di Maria, per traversare il silenzio del Sabato, per guardare oltre il sepolcro, fino alla pienezza della vita, fino alla Resurrezione. Quella del Cristo, quella dei nostri cari che al sepolcro abbiamo consegnato, la nostra.

E occorre la carità, l’amore, perché la vita non sia una scorciatoia di menzogne o di illusioni, su Dio e su noi stessi. Percorrere la via della croce, come singoli e come comunità, significa dunque chiedere dunque al Signore di accrescere la nostra fede, di aiutarci a non fuggire dal mistero della sofferenza, ma di riconoscerlo come misura d’amore e come nutrimento di un’ostinata speranza.

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