Nella seconda battaglia difensiva del Don (offensiva Ostrogorzk – Rossos, dicembre1942-gennaio 1943) si distinse il giovane sottotenente Giancarlo Maria Chiti. Quella del titolo è una delle “Centomilia gavette di ghiaccio” dell’omonimo romanzo autobiografico di Giulio Bedeschi che di quella demenziale follia militare in Russia voluta da Mussolini tratta e che anche di quella sconfitta sul Don parla.
A Chiti da quell’esperienza rimase una medaglia di bronzo italiana al valor militare e una croce di ferro tedesca della Wehrmarcht di seconda classe, un congelamento al piede e una spiccata vocazione a salvare vite, sia che fossero civili prigionieri che i nazisti volevano fucilare, sia i suoi “ragazzi” stremati che si volevano abbandonare al gelo della morte, infine rompendo un accerchiamento sovietico con un assalto praticamente all’arma bianca.
Integrato al rientro in Italia nella Repubblica Sociale Italiana continuò, a sottrarre alle rappresaglie civili ed ebrei. Internato in un campo di concentramento alleato si sostituì (come san Massimiliano Kolbe) a un altro prigioniero che rischiava la propria vita. Il breve periodo della prigionia e i susseguenti due anni per la sua riabilitazione e reintegrazione nell’esercito furono per Chiti un momento drammatico, nella snervante attesa della riabilitazione, nella situazione caotica di un popolo appena sopravvissuto alla seconda guerra mondiale, con gli eserciti di ogni genere che avevano fatto campo di battaglia di tutto il paese, esacerbato da una guerra anche civile che ancora ribolliva negli animi.
Proprio quel periodo di prova conferma in Chiti una serenità alimentata da una fede incrollabile invece dell’angoscia, legittima per una situazione drammatica sentita da lui come ingiusta. Gianfranco Chiti viveva su un piano superiore ai suoi simili. Continuerà il suo “servizio” nell’esercito, in Italia e all’estero, convinto, come non mai, che la vocazione del militare non sia quella di uccidere, ma di salvare vite. Con la sua spirituale maturazione religiosa questo servizio si venne sublimando sul piano delle anime.
L’ultimo incarico prima del congedo con il grado di generale, fu il comando della Scuola Allievi Sottufficiali di Viterbo (oggi SSE). In questa veste venne a conoscere la fondatrice di questo giornale, la professoressa Tommasina Alfieri che aveva restaurato l’Eremo di Sant’Antonio alla Palanzana, gestito con la famiglia religiosa laicale anch’ella da lei fondata. Il comandante Chiti era già una sorta di una leggenda per i militari e i cittadini di Viterbo basti dire che la visita all’Eremo avveniva di ritorno dall’Ospedale dove si recava abitualmente a visitare i propri “allievi” infermi. Il suo attendente-autista aveva ancora nella borsa cioccolate e regalini avanzati dalla visita, come se fosse un padre per i propri figli.
Ma ciò che rivelò la sua segreta vocazione, fu la frase che disse nell’entrare all’Eremo: che ogni mattina dalla caserma gettava uno sguardo al Convento dei “nostri” padri Cappuccini. L’Eremo e la Caserma sono posti su due crinali dirimpettai del Monte Palanzana e l’Eremo è stato uno dei primi conventi della riforma cappuccina.
Di lì a poco, dopo il congedo incominciò il percorso di formazione nell’Ordine dei Cappuccini, fino all’ordinazione sacerdotale nel 1982. Era uscito di nuovo da un “campo di prigionia”, sia pure quella di un ammirevole amor patrio, per entrare nelle sconfinate libertà dell’Amor Divino. Ora i suoi ex-allievi sottufficiali diventavano i suoi allievi spirituali. Ma non solo. Infatti l’ordine, dopo qualche anno, viste le sue qualità spirituali e dirigenziali, lo incaricò di ricuperare dall’abbandono il convento cappuccino di san Crispino a Orvieto. Si può dire che questo sia stato il primo “miracolo” di padre Chiti. La stessa Professoressa Alfieri (un gigante del laicato femminile del ‘900) era stata tentata dell’impresa, ma aveva rinunciato dopo avere constatato il degrado della struttura. L’unica parte agibile erano i resti della Chiesa, con, al centro un inquietante cerchio di cenere caratteristico di riti satanici.
Il recupero del convento ha dell’incredibile, non tanto per la capacità organizzativa e gestionale dell’ex-generale, quanto per la spiritualità del sacerdote francescano Chiti che riuscì a dare un’anima alle pietre e ai cuori dei suoi collaboratori. I quali ancora oggi si dedicano anima e corpo a promuovere la figura del loro “comandante”. Proprio in questi giorni i suoi ex allievi, organizzati in Associazione, guidati dal responsabile Angelo Polizzotto, espongono, in occasione dei vent’anni della morte (2004 – 2024) una mostra antologica, con documenti, foto e filmati, del generale Chiti, o meglio di padre Gianfranco o ancora meglio della causa di canonizzazione che già lo ha visto dichiarare venerabile. La mostra, esposta nelle prestigiose sale del Palazzo dei Papi di Viterbo, rimarrà aperta, salvo prolungamenti, fino al 29 giugno. È curata da Marco Nardini, e utilizza come base documentale i volumi di Vincenzo Ruggero Manca: “Il Generale arruolato da Dio”, e di Rinaldo Cordovani: “Lettere dalla prigionia (1945)”, entrambi editi da Ares, e sempre di Cordovani, per i tipi di Borgia Editore, “Gianfranco Chiti Granatiere e Francescano”.
Editore e Direttore Editoriale
Mario Mancini, nato in Roma nel 1943, dopo la laurea in scienze geologiche, con tesi in geofisica, nel 1967 e un anno di insegnamento della matematica in un istituto tecnico industriale romano, svolge per un quinquennio la sua professione di geofisico e sismologo prevalentemente all’estero, in particolare in Papua Nuova Guinea presso il Rabaul Central Volcanological Observatory e in Australia nella sezione aviotrasportata a Canberra, in entrambi i casi per la BMR Australia, intervallando le due esperienze con un viaggio di studio in Giappone nell’estate del 1970.
Rientrato in Italia nel 1972, si impiega come geofisico presso la CMP di Roma per la quale lavora per sei anni, con diversi incarichi in Italia e all’estero.
Fin da liceale, nel 1959, aveva conosciuto Tommasa Alfieri e l’Opera Familia Christi da lei fondata. La figura e la spiritualità della Signorina Masa, come i suoi discepoli chiamavano la Alfieri, resteranno per Mancini un fondamentale riferimento per tutta la vita. Laico consacrato nel gruppo maschile dell’opera già dal 1974, nel 1979 fa la scelta di dedicarsi completamente all’Opera e va a vivere nell’eremo di Sant’Antonio alla Palanzana.
Alla morte della fondatrice, nel 2000, l’intero patrimonio dell’Opera passa per testamento all’associazione Vittorio e Tommasina Alfieri, all’uopo voluta dalla stessa Alfieri e della quale Mancini era stato tra i fondatori.
Per accordi associativi, più tardi violati da persone riuscite ad assumere il controllo dell’associazione, Mancini resta all’Eremo, unica persona a risiedervi in permanenza e a occuparsene.
La nuova gestione dell’associazione, decisa a trasformare la Familia Christi da istituzione prettamente laicale e una confraternita sacerdotale anticonciliare, nel 2005 convince Mancini a dimettersi dall’associazione stessa, in cambio della promessa, purtroppo mai ratificata legalmente, di lasciargli l’Eremo.
Fino fino al 2012, questo luogo, sotto la conduzione di Mancini, che sempre nel 2005 ha fondato l’associazione Amici della Familia Christi e ha registrato presso il Tribunale di Viterbo la testata Sosta e Ripresa, anch’essa fondata da Tommasa Alfieri e della quale Mancini è direttore editoriale, svolge un prezioso compito di Centro di spiritualità e di apertura ecumenica e interreligiosa.
Nel 2012 la confraternita appropriatasi del nome di Familia Christi (poi sciolata dalla Santa Sede con riduzione allo stato laicale di tutti i suoi esponenti) in violazione degli accordi presi a suo tempo ottiene dal Tribunale la restituzione dell’Eremo.
Mancini resta a Viterbo e prosegue il suo impegno ecclesiale in vari uffici diocesani e nel comitato regionale per l’ecumenismo ed il dialogo interreligioso.