Riproponiamo un articolo pubblicato nel 2015,  di padre Giovanni Boggio, scomparso il 30 giugno 2017.

Presentare il libro di Giona in dieci minuti è un’impresa impossibile. Do per scontata la conoscenza del racconto e mi limiterò ad alcune considerazioni attinenti al tema proposto. Ricordo solo alcune coordinate che possono aiutarci a inquadrare la vicenda nell’ambiente culturale in cui è stata pensata. 

Ninive, capitale dell’Assiria, è stata distrutta nel 612 a. C. Nell’immaginario collettivo di allora rappresentava “il nemico” per antonomasia, odiato a causa della crudeltà contro i vinti. 
Giona, protagonista del libro omonimo, è il nome di un profeta vissuto nell’VIII secolo a. C. nel regno di Israele.  Si dice solo che esorta il re Geroboamo II a  ricuperare dei territori ritenuti parte del suo regno. 
In Israele vi erano due correnti di pensiero nei confronti degli altri popoli. 
• Rifiuto di contatti e di collaborazione per difendere i propri privilegi ricevuti 
da Dio (Baruc 4,3). Orgoglio nazionale. 
• Apertura alla convivenza pacifica (anche se per opportunismo), fino a pregare per i nemici (Geremia 29,7).
All’interno di Israele queste due posizioni si confrontavano a viso aperto fino ad arrivare allo scontro fisico. Negli anni successivi al ritorno in Giudea degli Ebrei deportati a Babilonia, queste tensioni si erano acuite. 
L’esilio aveva costretto ad una revisione radicale delle motivazioni su cui si reggeva l’idea di un popolo diverso dagli altri per una scelta operata da Dio.

La sudditanza ai babilonesi poteva far pensare ad una superiorità di Bel o Marduk sul Dio di Israele che si era dimostrato incapace di difendere il popolo che si era scelto. L’interpretazione degli avvenimenti militari e politici data dai profeti di quel periodo andava in senso contrario e attribuiva a YHWH la regia di quanto accaduto. 
Gli esuli a Babilonia consideravano la loro situazione come quella dei morti chiusi nei sepolcri dai quali nessuno sarebbe mai uscito (Ezechiele 36). La condizione degli ebrei del regno del Nord deportati dagli Assiri nell’alta Mesopotamia nel 722, rafforzava questa convinzione. 
Però la possibilità, insperata, di ritornare in patria aveva confermato le parole di Geremia, di Ezechiele e del discepolo di Isaia (a cui attribuiamo la parte centrale del libro omonimo), ma aveva anche consolidato nei reduci dall’esilio, la convinzione di doversi astenere da ogni contatto con le altre popolazioni. 
I testi biblici che descrivono questo periodo (Esdra, Neemia, Aggeo, Zaccaria) riportano episodi dettati da intolleranza autentica da parte di gruppi di ebrei nei 
confronti di chi aveva un’altra cultura. Una sola citazione che ci restituisce il clima agitato di quegli anni: “… alcuni Giudei si erano ammogliati con donne di Asdod (…) la metà dei loro figli parlava l’asdodeo (…) non sapeva parlare giudaico. Io li rimproverai, li maledissi, ne picchiai alcuni, strappai loro i capelli” (Neemia 13,23-25). 
I profeti vissuti prima dell’esilio erano stati molto severi nel condannare i rapporti con le nazioni straniere. Ma la motivazione era unicamente di carattere religioso, cioè il pericolo di seguire i culti idolatrici abbandonando la fede in YHWH il Dio di Israele. 
Uno dei più rigidi sostenitori del monoteismo yahvista è stato certamente Geremia che però dimostrava un pragmatismo incredibile e un intuito politico straordinario. La sua simpatia verso i babilonesi, accentuata dal rifiuto deciso di alleanze con l‘Egitto, era ben nota non solo a Gerusalemme, tanto da procurargli ripetuti arresti per sospetto tradimento, fino a mettere in pericolo la sua stessa vita. 
Per il profeta di Anatot la fedeltà a YHWH poteva coesistere con l’ammirazione  verso gli stranieri, nonostante riconoscesse il loro errore nel credere in divinità 
considerate inesistenti. La sua apertura agli altri venne ricambiata in alcune 
occasioni e lo salvò dalla deportazione a Babilonia mentre invece gli causò un esilio forzato proprio in Egitto dove venne costretto ad andare dai Giudei. 

È difficile per noi ricostruire con esattezza gli avvenimenti che hanno dato origine a questi racconti. Però la convergenza degli indizi narrativi ci fornisce un quadro convincente del clima di tensione che ha contrassegnato la vita di Israele nel corso di alcuni secoli incentrati sulla distruzione di Gerusalemme, la perdita 
della libertà e della patria, la fatica di una ricostruzione mai giunta a compimento. 
Sembra questo l’ambiente in cui è nato il libro di Giona che presenta e drammatizza senza sconti le tematiche che abbiamo visto. L’autore di Giona interviene nel dibattito prendendo una posizione netta in favore dell’apertura verso gli stranieri e condanna con decisione l’atteggiamento xenofobo nascosto dietro la maschera di una religiosità intollerante. 
Non nego che la mia lettura possa essere stata influenzata anche dagli ultimi fatti di terrorismo. Però mi sembra evidente nel libro di Giona una satira feroce contro il protagonista, descritto con tutte le caratteristiche che solitamente si attribuiscono a personaggi presuntuosi, gretti, egoisti, gelosi dei propri privilegi, 
animati da pregiudizi che non risparmiano nemmeno quel Dio che dicono di adorare ma che in realtà contestano stizziti quando rivolge le sue attenzioni a qualcun altro. 
Dio apre un dialogo affidando a Giona un incarico di fiducia. Gli altri profeti rispondevano subito con il classico “hinneni” “eccomi” per indicare la loro disponibilità.

Il nostro invece, non dice una parola, nemmeno una  formula convenzionale, noi diremmo un “ricevuto”, come se non avesse nemmeno sentito. 
Si comporta da maleducato. Semplicemente si muove in direzione opposta a quella indicatagli da Dio. E paga pure di tasca propria il biglietto di viaggio, forse pensando di aver acquisito così il diritto di dormire durante la terribile tempesta che vede i marinai, impegnati allo spasimo, sacrificare tutti i loro beni per salvare la vita. Stupisce lo scatto di altruismo attribuito al profeta che si offre vittima volontaria 
per calmare l’ira del proprio Dio. Si tratta forse dell’anticipazione di quanto dirà verso la fine del racconto riguardo alla misericordia di Dio? O piuttosto dobbiamo vedervi una costante del carattere che l’autore gli attribuisce, facendogli ripetere ancora per tre volte, nel seguito del racconto, il desiderio di morire? La richiesta di essere gettato in mare sarebbe allora da inserire nella logica del rifiuto di obbedire all’ordine di Dio e spiegherebbe il particolare grottesco del mostro marino che vomita il boccone, dopo averlo tenuto nello stomaco per tre giorni, senza riuscire a digerirlo. Qui la satira diventa corrosiva e raggiunge il risultato che non erano riusciti ad ottenere i succhi gastrici del mostro mitico. Sublime! 
I marinai, stranieri e idolatri, anche dopo aver conosciuto la causa che ha scatenato la tempesta fanno ogni sforzo per non buttare a mare il colpevole, reo confesso. Quando poi lo fanno, si sentono in colpa e chiedono perdono a Dio, pregano e offrono sacrifici di ringraziamento dopo il salvataggio. Giona invece si limita ad esporre la propria fede e l’unica preghiera che l’autore gli mette sulle labbra proviene dal ventre del mostro marino con formule impersonali. 
Gli unici sentimenti manifestati dal profeta in tutto il racconto rivelano dispetto, stizza, rabbia, sdegno, invidia fino a raggiungere la sfrontatezza di rimproverare Dio per la misericordia dimostrata verso l’odiato nemico. 
Anche alla seconda chiamata di Dio non segue un “eccomi” dettato almeno da buona educazione. Però questa volta Giona va nella direzione che gli è indicata. 
Ha cambiato atteggiamento? No, ci dice l’autore. Infatti la prima volta Dio gli aveva specificato il contenuto dell’annuncio che avrebbe dovuto dare: la denuncia della malvagità dei niniviti che lasciava intravedere la volontà di perdono da parte di Dio, inaccettabile da parte del profeta. Questa volta invece, Dio è più prudente: “Annuncia loro quanto ti dirò”. Giona parte, forse sperando che i progetti di Dio finalmente coincidano con i propri. 
Infatti l’autore lascia trasparire la soddisfazione del profeta che finalmente può proclamare ad alta voce, per ordine del suo Dio, quello che era il suo più grande desiderio: “Ninive sarà distrutta!”. 
E invece… accade proprio quello che temeva: Dio perdona gli odiati nemici. 
La reazione del profeta è coerente con il carattere che gli è stato cucito addosso dal nostro autore. È indignato, indispettito, rabbioso perché i suoi timori si sono realizzati. “Lo sapevo che andava a finire così” si potrebbe tradurre lo sfogo di Giona. Il suo tentativo di fuga a Tarsis era per impedire a Dio di compiere quello sbaglio. Lo sapeva bene che il suo Dio si sarebbe lasciato commuovere dalle suppliche di quei criminali e questo era ingiusto, insopportabile per una persona come Giona che aveva idee chiare e convinzioni profonde. 
Il suo mondo gli era crollato addosso: era meglio morire. Quando perde anche il piccolo sollievo che gli procurava l’ombra del qiqayon, il profeta non ha più nessun interesse per la propria vita. Dio invece continua a preoccuparsi per la vita di tanti uomini. Come? Il racconto non lo dice. 
Penso che Giona si sarebbe rallegrato leggendo lo scritto del profeta Naum che descrive compiaciuto in tono epico la distruzione dell’odiata città. Avrebbe gioito ancora di più camminando tra le rovine di Ninive, rovinate un’altra volta dalle distruzioni di questi giorni. È questa l’eredità che ci ha lasciato la storia che sembra soddisfare le aspettative del profeta ribelle che voleva dare lezioni a Dio. 
Ma la storia ci sforna anche dei cloni perfettamente funzionanti e affetti da quella che papa Francesco ha chiamato “sindrome di Giona” (omelia di Lunedì, 14 ottobre 2013).

Persone convinte “di avere le idee chiare: «La dottrina è questa, si deve credere questo. Se loro sono peccatori, si arrangino; io non c’entro! 
Questa è la sindrome di Giona»”.
Il movimento ecumenico vuole evitare il contagio virale che può essere provocato da questa sindrome che purtroppo non è prerogativa di ambienti cristiani ma si sviluppa rapidamente in tanti ceppi diversi per cultura, religione, lingua, comportamenti. 
Non è quindi un prodotto recente e circoscritto, essendo stato illustrato magistralmente da un autore ebreo anonimo, vissuto cinquecento anni prima dell’inizio della nostra era. 

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