La decisione più importante, almeno in teoria,  con la quale si è aperta a fine settembre la 70ª Assemblea generale delle Nazioni Unite è passata un po’ in sordina, come era ipotizzabile, dato che ad oscurarla c’è stata la visita al Palazzo di Vetro  di Papa Francesco – il cui intervento ha avuto comunque un rilievo storico – e dato che l’attenzione degli osservatori già si concentrava sugli incontri in margine all’Assemblea stessa, primo tra tutti quello  tra Putin e Obama, dai quali peraltro non sono usciti accordi di rilievo riguardo alle principali crisai internazionali, a partire da quella in Siria strettamente connessa alla maggiore emergenza profughi mai registrata.

Eppure proprio la prima decisione presa dall’Onu – come tutte quelle dell’Assemblea comunque non vincolante se non sul piano culturale – potrebbe davvero sancire una svolta epocale. Sono stati infatti approvati i  17 nuovi obiettivi per lo sviluppo sostenibile (Sdg) raggiungere entro il 2030, che subentrano ai vecchi obiettivi di sviluppo del millennio (Mdg) che in teoria sarebbero dovuti essere conseguiti entro quest’anno, risultato che lascia molti dubbi.

La differenza potrebbe farla proprio quel “sostenibile”, dopo che alcuni traguardi dati per conseguiti si sono rivelati decisamente fasulli, occupandosi di prodotto interno lordo (pil) e non certo di prodotto umano. Per intendersi,  con sistemi di misurazione troppo condizionati dalle statistiche ufficiali e dunque fuorvianti, capita normalmente, per fare solo un esempio, che se aumentano i prezzi delle materie prime cresce pure il pil, ma di solito la povera gente  sta peggio di prima. Soprattutto in Africa, ma non solo, petrolio e minerali vari arricchiscono solo le élites, mentre le multinazionali rubano le terre ai contadini e realizzano profitti puntando su colture destinate unicamente all’esportazione e ai consumi del nord ricco del mondo.

Con i nuovi diciassette obiettivi, suddivisi in 169 traguardi specifici minuziosamente elencati – risultato di intensi negoziati, riunioni e conferenze tenute negli ultimi anni in tutti i continenti – sembrerebbe essersi imposta non solo la volontà, ma la tendenza a non subordinare lo sviluppo umano agli interessi di una finanza mondiale che resta comunque pervasiva. Tra gli Sdg troviamo al primo posto la “fine della povertà” , al secondo “fame zero”, al terzo “buona salute e benessere”. Poi “educazione di qualità”,  “eguaglianza di genere”, “acqua pulita e igiene”. Seguono quindi le sfide dell’ecologia (energia pulita, clima, città sostenibili, vivibilità in acqua e terra), dell’economia (crescita economica, lavoro decente, innovazione, consumo e produzione responsabile) e della giustizia (ridurre le ineguaglianze, pace e istituzioni forti).

Diversamente che per gli obiettivi del millennio,  che si applicavano soltanto ai Paesi che unpo’ ipocritamente si contina a chiamare in via di sviluppo, per gli Sdg  tutti gli Stati dovranno lavorare nella stessa direzione. Ciascuno sarà tenuto a presentare i suoi piani per lo sviluppo sostenibile, che devono essere  impostati in maniera da sottrarre risorse da attività insostenibili in favore di politiche capaci di migliorare la qualità della vita e rispettare l’ambiente.

C’è un tarlo, però, a tormentare anche i più ottimisti tra gli osservatori dei processi geopolitici. Stime concordi  valutano il costo mondiale degli Sdg a quindici trilioni (miliardi di miliardi) di euro l’anno. Trattandosi di investimenti destinati a produrre certo guadagni  alle persone, ma non ai potentati finanziari, c’è purtroppo da attendersi qualche altra statistica fasulla.

Quello fatto all’Onu, citato all’inizio di questo articolo, è stato certamente il discorso politico di maggior rilievo del Papa nell’ultimo periodo, ma non è stato il solo nel quale ha particolarmente insistito sull’etica dell’economia e sulla necessità di contrastare la miseria e l’eclusione nei fatti, cioè nella vita concreta delle persone. A opporsi a questa impostazione di equità e di rispetto dell’uomo e dell’ambiente è soprattutto lo strapotere della finanza, che in questo 2015 ha fatto registrare un ulteriore traguardo a spese dell’economia reale, cioè di fatto del lavoro, fonte principale di quei «beni materiali e spirituali» dei quali parla Bergoglio. In pratica «il pane e le rose» auspicati per i suoi figli da quella Rosa Luxenburg mandata sulla sedia elettrica negli Stati Uniti a motivo del suo presunto comunismo. Del resto sono in molti a considerare comunista anche il Papa e troveranno ulteriore alimento alle loro farneticazioni in quanto afferma  sul sostegno alla famiglia come «risposta più adeguata alle sfide che ci presenta un’economia globalizzata e spesso crudele nei suoi risultati». Altro che magistero cattolico che di famiglia parlerebbe solo per contrastare pseudomatrimoni e adozioni omosessuali!

Il risultato  raggiunto dalla finanza predatoria è che  metà del denaro del mondo è nelle mani dell’uno per cento della popolazione. Il dato, riferito da molta stampa internazionale quasi fosse una curiosità statica e non una progressiva tragedia,  – emerge dalle statistiche dell’istituto elvetico Credit Suisse, considerate attendibili dagli analisti di questioni geopolitiche. Nel 2015 si è arrivati a una distribuzione della ricchezza per cui quanti posseggono un patrimonio valutato a oltre 760.000 dollari, cioè appunto l’uno per cento dell’umanità, hanno tanto denaro quanto il restante 99 per cento. Questo progressivo passaggio di ricchezza dal lavoro al capitale, dall’economia reale appunto alla finanza, ha avuto un’accentuata accelerazione con la crisi finanziaria ed economica globale incominciata nel 2008. Secondo i commentatoripiù attenti,  il fenomeno si presta a una sola lettura possibile: i ricchi usciranno dalla crisi più ricchi, in termini sia assoluti sia relativi, mentre i poveri relativamente più poveri. Chi scrive queste più modeste considerazioni, si trova d’accordo.

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