di Chiara Vitali
Questa è la storia di un uomo qualunque. Ma la sua, come quella di tanti altri uomini la sera del 3 settembre a Viterbo, non è una storia qualunque. Ernesto Roselli, classe 1922.
E quello che stiamo per raccontare non è un momento qualunque di quella storia.
Siamo nel 1967, un anno che ha segnato profondamente questa città, visto che qualcosa di straordinario – nel senso di “extra ordinario”, fuori dalla normalità – successe durante i festeggiamenti in onore della Santa Bambina. Già, perché nella mente di tutti noi, pensando a Viterbo, si figura una sola e unica immagine: la Macchina di Santa Rosa.

Ernesto Roselli è un umile bracciante agricolo. Una moglie, Liliana Aquilani, e tre figli: Marilena, Luigi e Anna. Vive con la sua famiglia nel cuore pulsante del quartiere medievale, a San Pellegrino, dove l’essere viterbesi si porta addosso con orgoglio, nelle parole, nei gesti e nelle abitudini.

Ernesto si sveglia con un’emozione particolare nel cuore, quel 3 settembre 1967. È il giorno del Trasporto. “È un atto di devozione e di forza”: parole dettate dalla fede e dal sentimento che lui ripeteva di continuo. Una forza d’animo religiosa, ma anche una forza fisica che da tanti uomini come lui veniva esercitata ogni giorno per sfamare le proprie case. I Facchini, all’epoca, erano semplici operai, braccianti, contadini: persone che non avevano bisogno di mettere alla prova la loro resistenza. Quei muscoli, un giorno all’anno, erano messi a disposizione per portare “a cavaciulla” Santa Rosa.
C’è un altro pensiero nella mente di Ernesto, quella mattina.
La Macchina di Santa Rosa è nuova e definirla “macchina” risulta quasi una forzatura. Quella di Giuseppe Zucchi è una vera e propria opera d’arte architettonica. Un “campanile che cammina”, come disse il grande Orio Vergani. È altissima, è imponente, è bellissima. Così diversa dalle altre Macchine che lui, che suo padre, che suo nonno avevano portato.
Non era, di certo, come il baldacchino che si montava a Piazza Fontana Grande durante la Seconda Guerra Mondiale, che non si poteva accompagnare in processione da San Sisto a causa dei bombardamenti. Non era nemmeno come le strutture di Salcini e di Paccosi, che aveva onorato durante la sua giovinezza da Facchino.

È l’ora di pranzo, il rito ha inizio. Il primo, fondamentale, passaggio è quello della vestizione del Facchino. La divisa è, come dire, casalinga: è il frutto dell’ago e del filo delle donne, è cucita su tessuti intrisi di sudore e di affetto. Una camicia bianca, un fazzoletto in testa e pantaloni alla zuava. Scarpe “grosse” comprate dal Sor Gustavo in Via Cavour – non “fine”, come quelle che si indossavano la domenica per la Messa – che fossero accollate e che non rischiassero di sfilarsi durante la marcia sotto la Macchina.
E soprattutto la fascia rossa in vita, simbolo del sangue e del sacrificio. Liliana, insieme a Marilena e ad Anna, la srotolava e la teneva da un lembo. Ernesto afferrava l’altro, lo portava addosso e cominciava a girare su se stesso davanti allo specchio, di modo che fosse stretta al punto giusto.
È primo pomeriggio, bisogna uscire di casa. Ernesto saluta tutti – li rivedrà più tardi – e varca la soglia del civico 40 di Via Borgolungo. Su quella strada abitano altri tre Facchini. Li vedevi tutti e quattro, vestiti di bianco e macchiati di rosso, scalare quella scoscesa via per raggiungere gli altri servitori della Santa. Il “Giro delle Sette Chiese” li attende: è un pellegrinaggio che i Facchini percorrono sui più importanti luoghi di culto di Viterbo, dove a ognuno viene consegnato un ricordo caratteristico di quella chiesa. Ernesto infila tutto nelle tasche della divisa. La figlia Anna, nonostante avesse all’epoca soli cinque anni, ricorda ancora il gesto che il padre compiva la mattina successiva al Trasporto: egli svuotava i pantaloni e ne uscivano un giglio, preso a Santa Giacinta, vari santini tra cui l’immaginetta del Santissimo Salvatore di Santa Maria Nuova e, soprattutto, confetti. A quegli uomini serviva energia, serviva dolcezza.
Servivano anche sostanza nel cibo e nel bere per sostenere la fatica ormai prossima e calore degli abbracci delle famiglie. A questo serve quella che veniva chiamata “la merenda” alle Scuole Rosse. Siamo a tarda sera: Liliana, Marilena – in braccio a lei la figlia appena nata, Maria Grazia – e Anna portano lì qualcosa da mangiare e qualche bacio a Ernesto. “In articulo mortis”, recita la dicitura della benedizione che i Facchini riceveranno prima del Trasporto. Non si sa mai.
Si piazzano poi a Via Garibaldi per prendere posto. Come tutti gli anni, davanti al negozio di una zia.
Ernesto e Luigi Roselli
Luigi, il figlio maschio, si incammina lungo il percorso della Macchina. A lui un compito d’onore, ovvero recarsi sul sagrato della chiesa di Santa Rosa e attendere il padre in cima alla salita. Sarà lui a coprirlo con una giacca alla fine del Trasporto, per evitare che il sudore lo faccia ammalare. Luigi non può fare a meno, passeggiando, di ricordarsi di quando era piccolo e di quando, nel 1953, divenne la mascotte dei Facchini di Santa Rosa.

Per la prima volta nella storia, un bambino indossava quella piccola grande divisa bianca con la fascia rossa. Il primo Mini Facchino.

Della prima pagina de Il Messaggero del 3 settembre 1953 con Luigi Roselli vestito da Facchino
Qualche foto dell’epoca mostra il piccolo Luigi in mezzo a quegli uomini forzuti dal sorriso buono.
Ernesto, in quegli scatti in bianco e nero, porta sul petto una spilla che il Vescovo Adelchi Albanesi – siamo tra il 1958 e il 1959 – insieme al costruttore Angelo Paccosi consegnò ai Facchini, nominandoli ufficialmente “Cavalieri di Santa Rosa”: per quegli uomini straordinari dal cuore nobile era d’obbligo conferire un simile titolo.
Spilla dei Cavalieri di Santa Rosa
Il sole è tramontato. Il Volo d’Angeli – così si chiama la creatura di Zucchi – appoggiata alle mura guarda tutta Viterbo e i Facchini che la stanno per accompagnare lungo le strade della fede.
Ernesto è lì sotto, fila centrale ciuffi, dove stanno i più esperti. C’è trepidazione, ma anche nervosismo: non sarà davvero una facile impresa questa nuova Macchina.
Volo d’Angeli è sollevata e ferma. Comincia a danzare lungo Via Garibaldi, dove stanno Liliana, Marilena, e Anna. La Macchina passa, sembra tutto tranquillo. Le donne decidono di tornarsene a casa, visto che con loro c’è Maria Grazia di appena sette mesi. Marilena decide di raggiungere Luigi alla fine del percorso. Nessuno della famiglia, quindi, vedrà materialmente quello che stava per accadere.

La Macchina si posa a Piazza Fontana Grande: i Cavalieri escono stremati, terribilmente provati. C’è qualcosa che non torna. Probabilmente il peso del Volo d’Angeli è eccessivo, quello della responsabilità ancora di più. Ernesto e i suoi compagni, al comando del Capo Facchino, si infilano di nuovo sotto la Macchina per prendere in braccio la Santa e ripartire, ma è dura. Davvero difficile.
Ogni passo di Via Cavour, anche per Ernesto, è uno strazio: la forza implacabile di quegli uomini non basta più. Sarebbe stato un rischio imponderabile proseguire, una strage praticamente annunciata. E forse furono Santa Rosa e quel trionfo di angeli a trasformare il coraggio in intelligenza: i Facchini lasciarono la Macchina lì, in quel punto della via dove oggi si può leggere una targa in memoria di questo incredibile avvenimento.
Ernesto e gli altri Facchini si prendono sotto braccio, serrano le fila e decidono di andare comunque a Santa Rosa. La folla è esterrefatta, impaurita, ma anche addolorata e compassionevole nei confronti di quegli uomini. Ernesto e gli altri Facchini marciano con il loro cuore d’oro sbriciolato dal dolore.
Luigi e Marilena accolgono il padre, gli consegnano comunque la giacca. Da Via Borgolungo, Liliana e la piccola Anna sentono un gran fragore di ambulanze. Il pianto a dirotto di Ernesto, il giorno dopo, è ancora davanti agli occhi di Anna. “Non ce l’abbiamo fatta”.
Fu l’ultimo trasporto di quell’uomo qualunque, il ventiduesimo. Ma lui non era un uomo qualunque: lo dimostrano quella spilla e quel riconoscimento “per il senso di attaccamento ed abnegazione al Sodalizio e alla Macchina” conferitogli nel 1985, anno in cui – dopo che nell’ottobre del ‘84 una grave forma di sclerosi aveva portato via sua moglie Liliana – cominciò a fare la Guida ai Facchini sotto Spirale della Fede di Palazzetti e Valeri prima e sotto Armonia Celeste di Joppolo e Sensi poi.
Sono passati cinquant’anni ed Ernesto Roselli ora non c’è più. Ma ci sono ancora questi ricordi della sua famiglia. C’è ancora la Macchina, una straordinaria Macchina che tanto ricorda il Volo d’Angeli. E, sopra ogni cosa, c’è ancora quel sentimento che tanto ardeva nel cuore di quell’uomo qualunque.
Servizio fotografico a cura di Marco Aquilani – OfficinaVisiva
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