Domande e bisogni spesso vengono confusi. Rispondere ad una domanda non significa soddisfare un bisogno: il tossicodipendente domanda l’eroina, ma non ha bisogno di eroina. È banale.
Meno banale è il fatto che chi ha un bisogno da soddisfare a volte non ne domanda il soddisfacimento perché non sa a chi, né come, né se può domandarlo.
L’anziano bisognoso di una residenzialità socialmente assistita, il povero senza alloggio, l’immigrato che deve apprendere la nostra lingua, il disabile in cerca di supporti che allevino la sua condizione: tutti hanno bisogni che a volte non riescono a tradurre, per impossibilità fisica o per mancanza di conoscenza, in domande alle istituzioni preposte a riceverle e a rispondere.
Confondere le domande con i bisogni, quindi, non è solo un errore lessicale: può avere implicazioni pratiche nella vita di tutti e soprattutto dei più bisognosi e fragili.
La Pubblica Amministrazione istituzionalmente è tenuta a soddisfare i bisogni dei cittadini. Una parte della Pubblica Amministrazione è portata a ritenere che sia sufficiente rispondere alle domande che le sono state formalmente avanzate per aver soddisfatto i bisogni dei cittadini, ritiene, cioè, che tutte le domande rappresentino tutti i bisogni. È una Pubblica Amministrazione, per cultura, più attenta all’efficienza dei servizi (fare le cose nel modo giusto) che alla loro efficacia (fare le cose giuste).
Possiamo chiamarla “burocrazia grigia”.
Per contro, e in modo speculare, quelle persone bisognose che non pongono formali domande alle istituzioni, vale a dire alla Pubblica Amministrazione, in quanto non sanno a chi, come e se porle, costituiscono un’“utenza grigia”: ignorano l’esistenza di servizi istituiti per rispondere ai loro bisogni e/o hanno difficoltà a presentarsi e a qualificarsi come persone bisognose.
I seguenti dati possono delineare la dimensione di questa “utenza grigia”: un anziano su tre ha difficoltà di accesso ai servizi sanitari (ASL o medico di famiglia) o ai servizi sociali del Comune di residenza; le persone con difficoltà nell’accesso ai servizi socio-sanitari erogati dai Comuni costituiscono il 30% di cui la metà (15%) dichiara di avere “molta difficoltà”.
Si ritiene che la pandemia abbia ulteriormente aggravato la situazione, ma già da questi dati emerge chiaramente la dimensione della “utenza grigia”.
I Comuni, almeno nella Regione Lazio, hanno per legge “l’obiettivo di promuovere l’esigibilità dei diritti sociali e di favorire l’accesso della persona ai servizi del sistema integrato” (LR 11/16 Regione Lazio art. 23). “Promuovere l’esigibilità dei diritti sociali” va di pari passo con la riduzione della “utenza grigia”.
Il welfare territoriale è gestito in larga misura dai Servizi Sociali dei Comuni. Essi operano in base alle domande, ma spesso sono portati a far coincidere le domande con i bisogni. Il rischio è di operare su una parte scambiandola per il tutto. Il rischio è che i Comuni possano tenere in scarsa considerazione quell’”utenza grigia” che in tal modo non viene ridotta per “promuovere l’esigibilità dei diritti sociali” come prescrive la legge.
Gli ETS svolgono attività sul territorio e conoscono i bisogni delle persone, in particolare di quelle che vivono situazioni di fragilità. Li conoscono perché ci sono a contatto. L’esperienza pluriennale che hanno maturato li ha resi consapevoli della necessità di una struttura articolata e diffusa nel territorio, che informi/orienti le persone che costituiscono quell’utenza grigia e che ne faciliti l’accesso ai servizi istituzionali.
Nell’ambito di un rapporto basato su collaborazione, condivisione e, quindi, corresponsabilizzazione, gli ETS possono intercettare quella “utenza grigia” ed orientarla verso le Istituzioni competenti. Appare pertanto utile, e forse anche economico, che i Servizi Sociali dei Comuni e gli ETS condividano un sistema di punti informativi capaci di intercettare sul territorio comunale una pluralità di destinatari orientandoli verso quei servizi preposti a soddisfare le specifiche condizioni di bisogno. Ciò in una logica di condivisione e di collaborazione.
È il libro dei sogni? Non proprio: esistono realtà e realizzazioni come quelle di Brescia e Parma, Comuni che, in collaborazione con gli ETS, hanno costituito da tempo sul territorio comunale un sistema di punti informativi e di orientamento della “utenza grigia”.
Partendo da queste realtà, nell’autunno del 2020 alcuni ETS presentarono all’Assessorato ai Servizi Sociali di un Comune del Lazio una proposta per attuare in co-progettazione “un sistema di punti informativi e di orientamento, da realizzare tramite sportelli diffusi nei quartieri della città attivati presso le sedi degli ETS aderenti, con personale loro adeguatamente formato” e con il compito di:
• accogliere, informare, orientare e accompagnare la persona al servizio che risponde ai suoi bisogni;
• distribuire moduli e aiutare nella loro compilazione;
• collaborare con il servizio sociale per raggiungere i cittadini che necessitano di aiuto.
Si narra che la proposta sia stata illustrata all’Assessore ai Servizi Sociali di quel Comune, che si mostrò entusiasta.
Si narra anche che all’incontro fosse presente un funzionario di quell’Assessorato, che qualificò la co-progettazione: “una parola vuota”. Quel funzionario avrebbe dimenticato la sentenza 131/20 della Corte Costituzionale, che pochi mesi prima aveva dato piena legittimità alla co-progettazione. Peraltro, la qualifica di “parola vuota” alla co-progettazione non lasciava presagire alcuna propensione collaborativa. Fatto sta che le sollecitazioni degli ETS, ripetute per mesi, per avere una risposta ufficiale alla proposta non sortirono effetto, finché si arrivò al termine di quella Giunta.
Sono passati quattro anni e forse vale la pena che quegli ETS ripresentino la proposta aggiornandola e rinverdendo la memoria su sentenze costituzionali.
Forse, oltre a far diminuire l’utenza grigia, quegli ETS riuscirebbero anche a far diminuire la burocrazia grigia. Chi sa!
Raimondo Raimondi
Presidente della Consulta del Volontariato di Viterbo
