La cultura del servizio è indubbiamente ciò a cui si pensa in riferimento al volontariato in una mensa Caritas. Ed è indubbiamente così, ma non è un’esclusiva dei credenti. Vi sono moltissimi atei o agnostici che donano il loro tempo per svolgere attività in cui, non si può negare, il messaggio evangelico è messo in pratica. Evidente e fortissimo. Il Vangelo, quindi, travalica la fede divenendo modo di vivere nella società civile. La cultura del servizio per i credenti è nelle parole del Vangelo di Matteo 25, 34-36 Allora il re dirà a quelli che saranno alla sua destra “…. E siete venuti a trovarmi”.
Parole che sono divenute quasi iconiche per fare entrare nel “visibile” colui che viene riconosciuto nel momento in cui non lo vedi. Vivere un’esperienza di volontariato in una mensa Caritas è trovarsi immersi nel proprio tempo speso donandolo a chi si trova in situazioni di disagio.
Il servizio inteso quindi come servire altri “meno fortunati” come fosse una assunzione di responsabilità delle altrui sconfitte o limiti ed in ciò si elaborano anche le nostre sconfitte o limiti. Un credente può dunque parlare di cultura del servizio come “umanizzazione di Dio”, prendendo in prestito il titolo di un libro di Castillo. In cui possiamo leggere alcune frasi di grande peso: ” […] Perché è evidente che la lista di cose che decideranno la salvezza o la perdizione nel giudizio ultimo riguarda tutte quelle cose che oggi definiremmo problemi sociali” e ancora “L’elemento più considerevole è che nel giudizio di Dio non si terrà conto di come ciascuno abbia affrontato i suoi problemi ma i problemi degli altri.” E ancora più importante “[…] così come Dio si è fatto conoscere in Gesù, in altre parole come il Trascendente si è reso visibile e tangibile nel campo della nostra immanenza, quello che Dio ha fatto è stato umanizzarsi”.
Ed il non credente? Non vive e non incarna la cultura del servizio per avere salvezza ne per una adesione al Vangelo, ma come atto di volontà propria a favore di altri proprio come integrità etica o meglio, come postura etica il ch, nulla ha a che fare con la religione, ma paradossalmente, con quanto di più laico esista: la “fede”. “Fede” che agisce anche negli atei, seppure con altri nomi.
Il servizio dunque è speranza attiva e fattiva perché è grazia e dono, quindi non è “ do ut des”, ma accoglienza . La cultura del servizio porta a fare ma non ad essere determinati da ciò che si fa. E per questo la realtà si trasfigura. E per questo si può osare dire che il servizio in mensa è Eucaristia. Perché Eucaristia è fraternità. Dono come sovrabbondanza. È “tutti siamo corpo di Cristo”
A tal proposito i volontari e gli ospiti della mensa non solo hanno un corpo ma insieme sono un corpo. Avere un corpo ed essere un corpo che abita nel mondo vuol dire riconoscere il limite, la fragilità, l’imperfezione. Corpi segnati dalla fatica di vivere senza dimora, spesso all’aperto, senza potersi lavare regolarmente, talvolta malati, incerti, feriti, vestiti con quello che capita. Sono corpi che si mostrano, che non si nascondono che hanno propria dignità davanti al mondo intero. Gli uomini e le donne che vanno a mangiare in Caritas mostrano infatti i loro corpi senza vergogna e senza pudore, e questo, credo dipenda dal fatto che la mensa è un dispositivo comunitario in cui le fatiche e le fragilità entrano in una dimensione condivisa. Sono corpi e storie che non si preoccupano di stare nella logica della competitività, della performance o del corpo scolpito. Ma il loro corpo, così com’è, è proprio il tempio più sacro che esista. Servire un pasto caldo vuol dire donare, seppure con i limiti che ci sono, una sorta di rinascita per chi riceve e di gioia interiore per chi serve. Nelle mense della Caritas corpi e gesti sono una vera e propria liturgia. E qui vengono in mente altre parole di Castillo che riprendendo il testo …… scrive che “la persona indigente è il luogo di Dio sulla terra”. E appare come liturgia anche in un particolare: le ceste in cui vengono messe, nelle buste, delle forme di pane che le persone possono portarsi via alla fine dei pasti.
La cultura del servizio deve essere spoliazione di sé. Entrata in una dimensione altra, ribaltata, in cui il volontario serve in tavola quelli che sono davvero re e regine del Regno di Dio. Il servizio è l’occasione per comprendere cosa significhi obbedienza, che è “ob-audire”, cioè ascoltare l’uno di fronte all’altro. Allo stesso livello. Non vi è colpa nell’essere poveri e non vi è merito nel mettersi al loro servizio; ciò non significa fare volontariato perché “oggi a te e domani magari a me, questa sarebbe ancora la logica del do ut des, la logica del fare per, la logica della ricompensa. Dio fa piovere sui giusti e sugli ingiusti, cosa buona e giusta non scordarlo. La logica è quella del cambiare lo sguardo, del sorridere, del rendersi disponibili all’ascolto e così per credenti è non sarà vera preghiera.
Mai dimenticare che tra volontario e ospite della mensa le condizioni non sono le stesse. Sebbene vi sia una sorta di cura reciproca. Ma, in prima battuta, in una condizione di disagio, necessità e indigenza è innegabile che sia il volontario a prendersi cura di chi viene a mangiare in mensa. Una cura che però non è solo cibo materiale. La cura è la relazione. La cura è sedersi a parlare con questi uomini e queste donne, la cura è guardarli, e toccare loro una spalla. La cura è chiamarli per nome, dire loro (metaforicamente e simbolicamente) che esistono, che non sono invisibili. Che ciascuno di loro è unico, insostituibile e importante. Che ciascuno di loro merita tempo. Ecco, questo ci dice cosa sia la cura: prendersi del tempo per donare del tempo affinchè chi è in una situazione di disagio, con le parole come concime per la vita ed il luogo di aggregazione come terra da lavorare possano insieme tornare a dare speranza e forza per rinascere. Questa è la speranza attiva. Questa la cura di un luogo in cui non si preparano solo pasti caldi. Ma si sta insieme, si condivide. In mensa si sta l’uno accanto all’altro, ci si mette in relazione. Questa cura è la stessa di quella di una madre con il figlio: fare sì che il figlio a un certo punto si stacchi. Ecco in mensa si fa “sosta” perché dopo ci sarà la “ripresa”.
Non dimentichiamo che Gesù si immergeva nella vita di tutti i giorni, toccava, parlava, entrava nelle case, mangiava con tutti. Ecco, la cultura del servizio deve rimanere con i piedi per terra, mai diventare tentazione di eroismo o assistenzialismo. Ma fare memoria della Croce, che è sì movimento verticale ma anche orizzontale.
Geraldine Meyer