Natale di altri tempi..
Nei racconti dei nonni sono racchiusi i significati e le radici della
memoria storica di un testo inedito.
di Stefano Stefanini
NewTuscia Nei racconti dei nostri nonni è racchiuso il significato
essenziale delle feste, Una strenna dei Natali descritti in uno appunto
storico inedito del prof. don Delfo Gioacchini.
A sentire i nostri “vecchi” rievocare la festa di natale, e il fervore e le
tradizioni che l’accompagnavano, c’è da struggersi di tenerezza, con
queste parole don Delfo Gioacchini ci ha trasmesso questo testo di
…ricordi vissuti.
In tempi così disincantati o in qualche caso insensibili al messaggio
natalizio come i nostri, è opportuno fermarsi un momento e riconsiderare
quei  Natali…..non per nostalgia del passato o critica  del presente ma
in quanto il Natale di tanti decenni addietro era bello  e si aspettava non
certo per le luci e per i doni.
In tantissima parte della popolazione e delle famiglie non c’era il nostro
benessere, c’era invece povertà e molto spesso, la fame. Per le strade, i
lampioni si spegnevano presto e, quanto ai regali, i bambini potevano
aspettarsi tutto al più, qualche palla di fichi secchi o una manciata di
mosciarelle.
“Ma in compenso non c’era casa, per povera che fosse, in cui non
bruciasse il ciocco, per riscaldare il bambinello” si diceva. Il ciocco era
simbolo del Natale dei poveri. In quelle giornate si avevano delicatezze
impensate. I contadini, e allora la società  era prevalentemente
contadina, strappavano la vita con molti stenti e tanta fatica. Tiravano
avanti a forza di polenta e di granturco. “
Ma a Natale il poco grano non venduto serviva a fare una bella infornata
di pane, e la sera della vigilia la tavola apparecchiata con i ceci.

Poi si mangiava e si giocava a tombola, in attesa della Messa di
mezzanotte. Nell’uscir di casa per andare in Chiesa era d’obbligo lasciar
la tavola apparecchiata, perché doveva passare Gesù Bambino!

Intanto il capo famiglia si recava alla stalla per un altro gesto rituale, cui
non avrebbe mai rinunciato: l’offerta all’asinello di un tozzo di pane
fresco. Voleva essere, anche questo, un modo di dire grazie, un invito a
partecipare alla festa comune…
Natale, nel quadro delle feste, era un punto di arrivo, una giornata
attesa  da tanto tempo. Si direbbe che una volta entrati nel mese di
dicembre, i giorni si contassero come tanti pioli di una scala che
finalmente arrivava al punto giusto. Sulla bocca dei nostri vecchi
abbiamo colto una filastrocca.
È un misto di devozione e di umorismo che cantava, con innocente
impazienza, le giornate e i santi che precedevano, nel lento svolgersi
del mese, verso il gran giorno:
Il primo di dicembre è Sant’Anzana
A lì due è Santa Bibiana.
A lì quattro è Santa Barbara beata.
A lì sei è San Nicola è per la via
A l’ otto è la Concezione di Maria
A lì dodici ci convien di digiunare
Perché alle tredici è Santa Lucia.
A lì ventuno San Tommaso canta
A lì venticinque è la Nottata Santa.
A lì ventotto so’ gl’Innocentini
e… so’ finite le feste e li quattrini !
Le feste di Natale, con le tombolate serali, il chiasso e l’allegria,
duravano fino a S. Giovanni.
Questo giorno era dedicato ad una gentile costumanza. “S. Giovanni:
tutti i figli vanno dalle madri”, si diceva, e il ritorno dei figli e delle figlie
nella casa dalla quale erano usciti e dove vivevano i genitori era un
modo, anche esso, di esaltare il sentimento della famiglia, e la Madre in
particolare, che veniva quasi a simboleggiare la Madonna, cui tutti i figli,
novelli Giovanni, rendevano affettuoso omaggio.
E si tornava riposati al lavoro, ma con il cuore volto a preparare e ad
aspettare un’altra festa: la vigilia della Pasquarella.
Quanto la nottata di Natale era intima e raccolta, quella della
Pasquarella era, viceversa,  gaia e rumorosa.    Uscivano sul far della
sera, gruppi di tre o quattro persone, uomini per lo più, e si spargevano
per le case di città o di campagna, a “cantare la Pasquarella”, attesi,
accolti e benedetti, con un bicchier di vino già preparato e le povere,
umili offerte da deporre nel canestro che uno di essi portava infilato nel
braccio: uova, salsicce, uva secca e qualche bottiglia di vino.

Accompagnati dall’ “orghinetto”, quei canti, non sempre perfettamente
intonati, ma sempre ascoltati con devozione, creavano un’atmosfera di
raccolto stupore. Al chiudersi del ciclo delle feste natalizie,  era questo
un modo di fissare nel cuore per tutto il corso dell’anno, la speranza
accesa da Cristo, sceso in terra a farsi umile e povero, come loro.
Noi non sappiamo chi ne sia stato l’autore, ma certo, la poesia
approssimata in cui erano composti, le sgrammaticature, le assonanze,
le ripetizioni, i versi zoppicanti, indicano, senza ombra di dubbio,
l’ambiente popolare dal quale provengono. Sentire, ad esempio, questo
che abbiamo potuto raccogliere sulla bocca dell’ultimo cantore della
Pasquarella:
“ Ecco ch’è notte e si rallegra il mondo
Ecco la santa notte di Natale.
È nato il Redentissimo del mondo
Il Figlio di Maria, l’originale”……

Pasquarella befania
Tutte le feste si porta via.
Ma rispose Sant’Antonio:
piano, piano … che c’è la mia !
Ma rispose ‘na vecchiaccia:
semo inverno fino a Pasqua! ;
Qui all’improvviso il tono cambiava e da tenero e raccolto si faceva
vivace:
“Fate presto a aprì la porta
Che dal ciel casca la brina …
Che c’è presa la tremarella,
viva, viva la Pasquarella,
Catenaccio della porta,
sei di ferro e non m’importa,
perché ci hai la figlia bella,
viva, viva la Pasquarella “.

Si stava in giro per tutta la notte e si bussava a tutte le porte. Saltarne
una, era come fare un’offesa. E se la porta tardava ad aprirsi, i cantori
intonavano impazienti:
“Dalla corta ne venimo,
pe’ la lunga dovemo annà !
Si ce date qualche cosa,
non ce fate più aspettà…”

Oggi la tradizione è tornata, ma non è più quella. Difficilmente si bussa
più alle porte per non disturbare, ma si va per le strade e per le piazze.
Nel silenzio della notte, il coro si leva con accompagnamento di chitarre,
fisarmonica e sassofono a cantare “Tu scendi dalle stelle” o “ Astro del
ciel” , è sempre accolto dai cittadini con riconoscente compiacimento.
In alcuni casi si ripropongono le strofe sopra riportate.
È questo, ci sembra, il modo più adatto, per augurare, all’inquieta
società del nostro tempo, la speranza e la pace di cui ha sempre
bisogno.
E  buon Natale a tutti i lettori !

di:  STEFANO STEFANINI

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