L’anno che si avvia a conclusione ha aperto il terzo decennio del millennio in un mondo decisamente malato. E non solo per la persistenza – e in molti luoghi per l’accentuazione – della pandemia del Covid 19. Un bilancio onesto di questo 2021 mostra un regresso su tutti i parametri previsti degli obiettivi di sviluppo sociale e sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu. Al tempo stesso, nelle principali aree di crisi si sono inasprite le situazioni di conflitto. Si è fatta più difficile anche l’azione della Chiesa nelle condizioni di povertà e di pericolo per le popolazioni più discriminate.
Ci sono chiavi di lettura diverse per indagare le prospettive del futuro, anche immediato. Una è quella, purtroppo molto diffusa e consolidata, di perpetuare la lettura della realtà nella logica del conflitto, tra popoli, tra classi sociali, da tempo anche tra generazioni. Né manca purtroppo di che nutrire questo tipo di lettura, le distorsioni della sanità mondiale, il persistere della fame e del sottosviluppo, il fenomeno epocale della mobilità umana, figlio del conflitto e al tempo stesso diventato arma del conflitto e di pressioni ricattatorie, il pervicace ricorso alla guerra, da sempre strumento privilegiato di affermazione degli interessi di pochi a danno dei più, l’arretramento della cultura dei diritti umani, quelli veri, non quelle parodie che ne fanno quanti confondono libertà con licenza.
Un’altra chiave di ragionamento, di indagine – e di impegno non solo ideale, sentimentale o “buonista”, ma concreto, sostanziale e buono – parte dal guardare agli obiettivi più importanti: la vita, la pace. Una traccia per questo ragionamento, un’indicazione per questo impegno a un artigianato di pace, a un servizio alla vita da opporre alla cultura di morte, all’industria arrogante del conflitto e della guerra, la offre il magistero pontificio. Nel messaggio per la Giornata della Pace, che si celebrerà il 1° gennaio, Papa Francesco ha indicato tre contesti su cui riflettere e agire. Da qui il titolo: “Educazione, lavoro, dialogo tra le generazioni: strumenti per edificare una pace duratura”.
Dopo la “cultura della cura”, il percorso proposto nel 2021 per “debellare la cultura dell’indifferenza, dello scarto e dello scontro, oggi spesso prevalente”, per l’anno che si appresta Francesco invita a un ulteriore approfondimento di questa chiave di lettura, di questo impegno a “leggere i segni dei tempi con gli occhi della fede, affinché la direzione di questo cambiamento risvegli nuove e vecchie domande con le quali è giusto e necessario confrontarsi”, per citare quanto affermò già due anni fa nel discorso alla Curia Romana in occasione degli auguri natalizi.

Domande, quindi, che sollecitano risposte. I tre contesti indicati dal Papa possono aiutare a cercarle e soprattutto a interrogarsi davvero. In quest’epoca di cacofonia comunicativa che fa da nutrimento alla definizione di idee senza aperture al confronto, ci si può e ci si deve chiedere come possano l’istruzione e l’educazione costruire una pace duratura, se il lavoro nel mondo risponda di più o di meno alle vitali necessità dell’essere umano sulla giustizia e sulla libertà, se le generazioni siano veramente solidali fra loro e credano nel futuro, infine e specialmente in che misura il governo delle società riesca ad impostare, in questo contesto, un orizzonte di pacificazione.
Tra le sfide dell’anno che si apre, quella sul contenimento e sul contrasto del cambiamento climatico è probabilmente la più rilevante (insieme a quella delle risposte agli eventi pandemici).
Anche qui la premessa non è incoraggiante: la 26ª conferenza delle Nazioni Unite sul clima (Cop26) dello scorso novembre a Glasgow ancora una volta non ha ottenuto l’accordo globale per il raggiungimento di obiettivi vincolanti.
Si può anche in questo caso denunciare la miopia di una politica mondiale delle contrapposizioni o indagare un fragile compromesso tra quanti hanno inquinato per secoli e quanti inquinano oggi, ma non conta la bilancia dei torti, storici e contemporanei, di fronte a una minaccia che riguarda tutti. Ed è poco il tempo per arginarla. Poco e non nostro, non della generazione che oggi gestisce il mondo, perché è il tempo, la vita dei nostri figli che stiamo rubando, o addirittura cancellando.
Tuttavia, quell’altra chiave di lettura non è solo una teoria. Gli operatori di pace esistono. Ovunque. Tra quanti si educano ed educano a stili di vita sostenibili per l’ambiente. Tra quegli imprenditori – e ce ne sono – che rifiutano di rispondere alle situazioni di crisi gettando sul lastrico i propri operai o andando a sfruttare un lavoro senza diritti in zone del mondo con leggi meno giuste o addirittura senza leggi, Sono operatori di pace quei tanti polacchi che vanno alla frontiera del loro paese chiusa ai profughi e ai migranti a portare cibo, vestiti, coperte, medicine a quegli infelici stremati da una vicenda che il cinismo dei governi aggrava e trasforma in una tragica guerra di pressioni e ricatti. Lo sono quei volontari che in mare obbediscono a quella che del mare è la prima legge: salvare le vite in pericolo. Lo sono gli abitanti di quei villaggi del Tigrai che dichiarano la loro non belligeranza, la loro volontà di non schierarsi per l’una o l’altra parte che si combattono e insanguinano da decenni la loro terra. Lo sono gli attivisti di quelle organizzazioni della società civile, religiose in primis ma non solo, che restano a fare il possibile in quell’Afghanistan abbandonato dal mondo. E sono solo pochi degli esempi possibili. Qualunque missionario nelle zone più devastate del mondo, qualunque volontario nelle nostre parrocchie potrebbe aggiungerne altri di uguale significato, di uguale valore
Non sarà “grande politica”, non sarà in grado di fermare le emissioni nocive, non sarà determinante contro la sfida impari tra finanza predatoria ed economia reale, tra capitale sempre più aggressivo e lavoro sempre più precario. Non sarà quella “rivoluzione” che curerebbe davvero il pianeta malato. Ma è un’assunzione di responsabilità. È un cosciente artigianato di pace che rifiuta di essere massa critica di quanti la pace non cercano, la pace non vogliono.
Foto tratte dal web

Direttore Responsabile
Giornalista professionista, ha lasciato a fine febbraio del 2016, pochi giorni dopo il suo sessantesimo compleanno, L’Osservatore Romano, il giornale della Santa Sede, dove aveva svolto la sua professione negli ultimi trent’anni, occupandosi principalmente di politica internazionale, con particolare attenzione al Sud del mondo.
Ha incominciato la sua professione giornalistica nel 1973, diciassettenne, a L’Avanti, all’epoca quotidiano del Partito Socialista Italiano, con il Direttore Responsabile Franco Gerardi. Nello stesso periodo, fino al 1979, ha collaborato con la rivista Sipario e ha effettuato servizi per l’editrice di cinegiornali 7G.
Ha diretto negli anni 1979-1980 i programmi giornalistici di Radio Lazio, prima emittente radiofonica non pubblica a Roma, producendovi altresì i testi del programma di intrattenimento satirico Caramella.
Ha poi lavorato per l’agenzia di stampa ADISTA, collaborando contemporaneamente con giornali spagnoli e statunitensi.
Nel 1984 ha incominciato a lavorare per la stampa del Vaticano, prima alla Radio Vaticana, dove al lavoro propriamente giornalistico ha affiancato la realizzazione, con altri, di programmi di divulgazione culturale successivamente editi in volume.
All’inizio del 1986 è stato chiamato a L’Osservatore Romano, all’epoca diretto da Mario Agnes, dove si è occupato da prima di cronaca e politica romana e italiana. Successivamente è passato al servizio internazionale, come redattore, inviato e commentatore. La prima metà degli anni Novanta lo ha visto impegnato in prevalenza nel documentare i conflitti nei Balcani e negli anni successivi si è occupato soprattutto del Sud del mondo, in particolare dell’Africa, ma anche dell’America Latina.
Su L’Osservatore Romano ha firmato circa duemila articoli sull’edizione quotidiana e su quelle settimanali. Ha inoltre contribuito alla realizzazione di alcuni numeri de I quaderni de L’Osservatore Romano, collana editoriale sui principali temi di politica, di cultura e di dialogo internazionali.
Collabora con altre testate, cattoliche e non, e con programmi d’informazione radiofonica e televisiva.
È Direttore Responsabile, a titolo gratuito, della rivista Sosta e Ripresa.
Ha insegnato comunicazione e politica internazionale in scuole di giornalismo e ha tenuto master di secondo livello, come professore a contratto, in Università italiane. Ha tenuto corsi, seminari e conferenze in Italia e all’estero. Ha tenuto corsi sull’attività diplomatica della Santa Sede in istituti superiori di cultura in Italia.
È autore di saggi, romanzi, raccolte di poesie, diari di viaggio, testi teatrali. Sue opere sono riportate in antologie poetiche del Novecento.
È tra i fondatori dell’Associazione Amici di Padre Be’ e della Fondazione Padre Bellincampi ONLUS, che si occupano di assistenza all’infanzia, e dell’associazione L.A.W. Legal Aid Worldwide ONLUS, per la tutela giurisdizionale dei diritti dell’uomo. Ha partecipato a progetti sociali per la ricostruzione di Sarajevo. È stato promotore e sostenitore di un progetto di commercio equo e solidale realizzato in Argentina.