Con l’iniziativa di ripubblicare, in queste due ultime settimane di quaresima, le riflessioni sulla Via Crucis di Tommasa Alfieri, Sosta e Ripresa, il giornale da fondato e che con fatica quotidiana, volontaria e convinta, cerca di trasmetterne la preziosa eredità, ribadisce quanto già scritto sull’argomento due anni fa, ancora nel pieno della pandemia del Covid 19. Per tante, troppe persone al contenimento della pandemia non ha fatto riscontro in questi due anni un sollievo dalle difficoltà della vita quotidiana. Milioni di famiglie vivono in situazione drammatica, senza la certezza del pane quotidiano, senza la certezza di avere o di conservare un alloggio, senza vedere luce all’orizzonte dei propri figli. Nella cosa pubblica si susseguono promesse non mantenute che si affiancano alla contrazione o persino alla cancellazione delle iniziative di sostegno ai più deboli, nella sanità, nella scuola, nei sussidi indispensabili alla loro stessa sopravvivenza. Si: fatica e solitudine segna la vita di molti, di troppi.

Eppure questa fatica personale e questa solitudine sociale hanno ancora in sé, come ogni crisi, un’opportunità importante: quella di una riflessione, di una consolazione, di una speranza che la preghiera, la fiducia nella promessa del Signore “Ecco io sono con voi ogni giorno fino alla fine del mondo” (Mt 28, 20) tramutano in certezza. Ogni giorno, non solo in quello della resurrezione alla quale siamo tutti destinati.

Sosta e Ripresa intende dunque, ancora una volta, offrire sull’esempio della fondatrice, una riflessione e un impegno personale e comunitario nelle tappe della Via Crucis, sulla passione di Cristo. Per questo, perché questa convinzione non vacilli in noi stessi, perché la fatica non indurisca i nostri cuori, perché sull’esempio e con l’aiuto di Cristo anche troviamo la forza di vincere le tentazioni del deserto, compresa quelle di credere a falsi messianismi, politici o taumaturgici che siano. Perché come Gesù anche noi non possiamo evitare la croce. Come a Lui, anche a noi si ripropongono le tentazioni già sperimentate tante volte. E nel deserto di senso – perché è tale anche il frastuono cacofonico con il quale ci bombardano ogni giorno spinte al consumismo e affermazioni di un potere che non si trasforma mai in servizio, che mai sa camminare al passo del più debole –  preghiamo di riconoscere queste tentazioni, di comprendere che sono soprattutto il modo di toglierci la coscienza di cosa conta davvero. Preghiamo di capire, sull’esempio e con l’aiuto di Cristo, che l’esperienza di deserto è essenzialità e non solitudine.

La pubblicazione di queste stazioni della Via Crucis terminerà alla vigilia della Domenica delle Palme, la cui liturgia ha il suo centro nella Passione del Signore. Anche la Via Crucis è un modo per ricordarlo, per vivere meglio il tempo della Pasqua di resurrezione. Le fronde, di palma o di olivo come si usa da noi, non sono una sorta di portafortuna o di talismano: sono un omaggio alla regalità di Gesù. Ma questa regalità si manifesta in modo sconcertante sulla croce. Quella di Cristo è una regalità che rinuncia a schemi di potenza umana, che indica per quali strade umanamente illogiche passi la gloria, che diventa misura di confronto e di verifica nel servizio dei fratelli. Proprio in questo misterioso scandalo di umiliazione, di sofferenza, di abbandono totale si compie il disegno salvifico di Dio. Cerchiamo, dunque, di volgere l’attenzione a questa centralità della croce.

Eppure non dobbiamo nasconderci che nell’impatto con la croce la fede vacilla. Se il patibolo prima schiaccia e poi uccide il Giusto per eccellenza, allora la vicenda umana sembra dar ragione alla potenza dell’ingiustizia, della violenza e della malvagità. Tutti noi siamo investiti dalla domanda inquietante sul cumulo insopportabile di dolore che investe tutti i crocifissi della storia. Dove sono la perfezione, l’onnipotenza, la giustizia di Dio se non interviene in certe situazioni intollerabili?

Quanti questo giornale dirigono e scrivono non hanno risposte da dare né formule da proporre. Da fratelli tra fratelli, senza una specifica missione ministeriale, possono solo condividere con i lettori la coscienza che sulla croce muoiono tutte le false immagini di Dio che la mente umana ha partorito e che continuiamo, forse inconsciamente, ad alimentare. Il Vangelo è il vocabolario che possiamo usare per distinguere la differenza tra religiosità e fede che la Pasqua esprime. Religiosità è quanto si concentra nell’apparenza e la giustifica. Spesso in modo positivo, ma talora come in una festa priva di sostanza, della quale misuriamo il godimento, ma non indaghiamo il senso. La religiosità è fatta di liturgie non meditate, che spesso debordano in trionfalismo o, peggio, tracimano in fondamentalismo. La religiosità ci porta sia ad osannare l’entrata di Cristo sia a disconoscerlo. Perché non entra mai nel mistero pasquale.

Per farlo occorre la fede. Per seguire Cristo nella solitudine del Getsèmani, bagnata di sudore di sangue, nel processo fatto al debole, nella tortura, nel disprezzo, nell’essere condotto fuori dalle mura della società, nell’essere ucciso sulla croce, occorre la fede.

E occorre la speranza di Maria, per traversare il silenzio del Sabato santo, per guardare oltre il sepolcro, fino alla pienezza della vita, fino alla Resurrezione. Quella del Cristo, quella dei nostri cari che al sepolcro abbiamo consegnato, la nostra.

E occorre la carità, l’amore, perché la vita non sia una scorciatoia di menzogne o di illusioni, su Dio e su noi stessi.

Percorrere la via della croce significa dunque chiedere dunque al Signore di accrescere la nostra fede, di aiutarci a non fuggire dal mistero della sofferenza, ma di riconoscerlo come misura d’amore e come nutrimento di un’ostinata speranza.

Tommasa Alfieri
Tommasa Alfieri

Foto tratta dal web

 

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