Giornata mondiale contro lo sfruttamento del lavoro minorile
«Chi accoglie anche uno solo di questi bambini, accoglie me» (Vangelo di Marco, 18, 5).
La parola del Signore risuona ancora in questo terzo millennio di monito e di condanna, forse più che nell’intera storia dell’uomo. L’orrore per il gesto di Erode non è più il segno di un sentire condiviso, non è più l’espressione del rifiuto dell’umanità di accanirsi sui propri figli più deboli. Quest’epoca di Erode porta il marchio: la realtà smentisce i luoghi comuni sulla condizione dell’infanzia come epoca felice della vita e interpella, con una dolente severità, non solo i cattolici, ma la coscienza dell’intera umanità, segnatamente nelle sue organizzazioni internazionali e nell’impegno dei diversi governi.
La Giornata di oggi, il 12 giugno, è quella dedicata dall’Onu alla lotta contro lo sfruttamento del lavoro minorile.
“I bambini devono poter giocare, studiare e crescere in un ambiente sereno. Guai a chi soffoca in loro lo slancio gioioso della speranza”, si legge in un tweet del Papa che sollecita in occasione di questa giornata a concentrarsi su questa “piaga da debellare”.
Istituita nel 2002, la Giornata quest’anno si concentra significativamente sull’impatto che le catastrofi e i conflitti hanno sulla manodopera infantile. Che le guerre e i disastri, naturali e no, abbiano un impatto catastrofico su chiunquem di qualunque età vi si trovi coinvolto è scontato. Uccidono, mutilano, feriscono le persone costringendole a fuggire dalle loro case, distruggendo il loro stile di vita, sino a ridurle in condizioni di povertà ed esporle a molteplici forme di violazione dei loro diritti fondamentali.
Meno attenzione, forse si dà al fatto che i bambini sono coloro che simili situazioni soffrono di più e sopattutto più a lungo. Le scuole e i servizi a loro dedicati vengono distrutti e ripristinarli chiede quasi sempre tempi lunghissimi. Pensiamo a cosa hanno significato per le famiglie italiane, anche quelle non direttamente colpite dai lutti causati dalla pandemia del Covid-19 o gettate improvvisamente in condizioni di assoluto bisogno, questi due o tre mesi senza scuola. Pensiamo allo sconvolginento dei ritmi domestici, alla privazione per bambini e adolescenti delle strutture educative, degli spazi di socializzazione e anche del fatto di giocare insieme.
Che sia un’indubbia ferita sociale è innegabile. Eppure, questa situazione preoccupante e angosciosa sembra appena un disagio, sia pure pesante, se paragonata a quella di altri bambini del mondo,decine e decine di milioni, che vivono come rifugiati in altri Paesi o come profughi interni nel proprio e diventano troppo spesso vittime del traffico e del lavoro minorile. Perché quelli che sono drammi comuni per tutti, per i bambini hanno conseguenze più tragiche e più durature. In questi anni, in questo minuto, la fame, la guerra, la malattia stanno stroncando, in un numero sterminato di casi, la speranza che ogni bambino rappresenta. Tale cruda realtà ha ancora come sola risposta le dichiarazioni di impegno moltiplicate, ribadite, solennemente proclamate nei consessi internazionali, talora con autentica, partecipe condivisione delle sofferenze dei popoli, ma talora purtroppo con un cedimento autoassolutorio alla presunta inevitabilità di tante tragedie.
Guerre e catastrofi, dunque, ma non solo. Sono pochi, una percentuale minoritaria del totale, i bambini che possono avvalersi delle promesse dei «grandi della terra», delle decisioni prese nelle riunioni internazionali, dei solenni impegni delle Dichiarazioni internazionali sottoscritte da tanti Governi. E pochi sembrano destinati a restare ancora per lungo tempo. Molti dei bambini ai quali nel 1990 una speciale Assemblea generale delle Nazioni Unite promise un futuro, non hanno avuto modo — se non come latente rimorso di un mondo segnato dall’ingiustizia — di chiedere conto agli adulti, a tutti noi, di quella mancata promessa. Molti di quei bambini, semplicemente, non ci sono più. Guerre, malattie, disastri naturali e, soprattutto, lo scandalo della fame, il vergognoso e vile sfruttamento che il forte fa del debole, il prezzo pagato dalla povertà dei più alla ricchezza, talora sfacciata, di pochi, ha impedito loro di diventare adulti, li ha uccisi prima.
Altri ancora, i più “fortunati”, non possono sapere nulla di quanto si è fatto o si è detto nelle stanze “che contano” perché non sanno leggere o perché troppo stremati da turni di lavoro massacranti per interessarsi di qualcos’altro che non sia un po’ di cibo, un po’ d’acqua, un po’ di riposo. All’epoca di quella Assemblea, i leader del mondo si impegnarono su molte cose: promisero più cibo e acqua potabile, più medicine e assistenza medica per donne e bambini; promisero di combattere le malattie infettive con le vaccinazioni; promisero più scuole, e di migliore qualità; promisero aiuto ai bambini soli o in difficoltà. Per quanto ovvie, minimali possano apparire tali richieste, per centinaia di milioni di bambini sono ancora, purtroppo, solo l’espressione di miraggi o, al più, di speranze collocate in un futuro che appare ancora lontano.
È l’Africa a sopportare la strage più vasta dei figli più indifesi dell’umanità. È l’Africa il continente dove meno alta è quella che i rapporti internazionali chiamano «aspettativa di vita», ma che è attesa di una morte ingiusta e precoce. A schiacciare nell’anima e nel corpo, a derubare dell’infanzia, infine a uccidere i più piccoli e i più indifesi sono però anche l’Asia, l’America, la stessa Europa, culla dei diritti dell’uomo. Anche nel Nord ricco del mondo, non affamato se non nelle sue sacche di emarginazione, non in guerra, non devastato da epidemie – ben più mortali di quella del Covid-19 che ha messo il mondo in ginocchio in questo 2020, – ma che basterebbe un vaccino di poco prezzo a curare, alle improvvise commozioni, quasi mai segue il calore duraturo di autentici progetti di solidarietà e di condivisione.
Per tantissimi altri bambini l’infanzia è una tragedia quotidiana fatta di duro lavoro e di sfruttamento. In un mondo nel quale un miliardo di persone sono analfabeti, è in crescita continua sia il numero di bambini che non vanno a scuola, sia quello dei bambini lavoratori. Sono oltre 250 milioni e non sono solo un dato statistico. Sono 250 milioni di facce, di storie reali, di vite segnate. Né quella del lavoro minorile è la più grave, sebbene sia la più diffusa, delle violenze contro l’infanzia. Un gigantesco dolore, una sterminata ingiustizia accomunano i bambini costretti in schiavitù nel Pakistan, i «meninhos de rua» del Brasile, i piccoli profughi di tante regioni del mondo, i ragazzi che i ghetti delle metropoli trasformano in criminali prima ancora dell’adolescenza, le vittime del sordido sfruttamento della prostituzione e di quello ancora più turpe e spesso omicida della pedofilia.
Sì, pensiamoci.
Foto tratte dal web
Direttore Responsabile
Giornalista professionista, ha lasciato a fine febbraio del 2016, pochi giorni dopo il suo sessantesimo compleanno, L’Osservatore Romano, il giornale della Santa Sede, dove aveva svolto la sua professione negli ultimi trent’anni, occupandosi principalmente di politica internazionale, con particolare attenzione al Sud del mondo.
Ha incominciato la sua professione giornalistica nel 1973, diciassettenne, a L’Avanti, all’epoca quotidiano del Partito Socialista Italiano, con il Direttore Responsabile Franco Gerardi. Nello stesso periodo, fino al 1979, ha collaborato con la rivista Sipario e ha effettuato servizi per l’editrice di cinegiornali 7G.
Ha diretto negli anni 1979-1980 i programmi giornalistici di Radio Lazio, prima emittente radiofonica non pubblica a Roma, producendovi altresì i testi del programma di intrattenimento satirico Caramella.
Ha poi lavorato per l’agenzia di stampa ADISTA, collaborando contemporaneamente con giornali spagnoli e statunitensi.
Nel 1984 ha incominciato a lavorare per la stampa del Vaticano, prima alla Radio Vaticana, dove al lavoro propriamente giornalistico ha affiancato la realizzazione, con altri, di programmi di divulgazione culturale successivamente editi in volume.
All’inizio del 1986 è stato chiamato a L’Osservatore Romano, all’epoca diretto da Mario Agnes, dove si è occupato da prima di cronaca e politica romana e italiana. Successivamente è passato al servizio internazionale, come redattore, inviato e commentatore. La prima metà degli anni Novanta lo ha visto impegnato in prevalenza nel documentare i conflitti nei Balcani e negli anni successivi si è occupato soprattutto del Sud del mondo, in particolare dell’Africa, ma anche dell’America Latina.
Su L’Osservatore Romano ha firmato circa duemila articoli sull’edizione quotidiana e su quelle settimanali. Ha inoltre contribuito alla realizzazione di alcuni numeri de I quaderni de L’Osservatore Romano, collana editoriale sui principali temi di politica, di cultura e di dialogo internazionali.
Collabora con altre testate, cattoliche e non, e con programmi d’informazione radiofonica e televisiva.
È Direttore Responsabile, a titolo gratuito, della rivista Sosta e Ripresa.
Ha insegnato comunicazione e politica internazionale in scuole di giornalismo e ha tenuto master di secondo livello, come professore a contratto, in Università italiane. Ha tenuto corsi, seminari e conferenze in Italia e all’estero. Ha tenuto corsi sull’attività diplomatica della Santa Sede in istituti superiori di cultura in Italia.
È autore di saggi, romanzi, raccolte di poesie, diari di viaggio, testi teatrali. Sue opere sono riportate in antologie poetiche del Novecento.
È tra i fondatori dell’Associazione Amici di Padre Be’ e della Fondazione Padre Bellincampi ONLUS, che si occupano di assistenza all’infanzia, e dell’associazione L.A.W. Legal Aid Worldwide ONLUS, per la tutela giurisdizionale dei diritti dell’uomo. Ha partecipato a progetti sociali per la ricostruzione di Sarajevo. È stato promotore e sostenitore di un progetto di commercio equo e solidale realizzato in Argentina.