La decisione russa di invadere l’Ucraina, smentendo ogni ragionevole previsione di molti osservatori, compreso chi scrive, riporta in Europa una guerra non “a bassa intensità” – nel Donbass, la regione ucraina russofona secessionista, gli scontri armati si protraggono da anni – che il continente aveva conosciuto per l’ultima volta con i conflitti balcanici degli anni Novanta. Anche il territorio europeo, dunque, torna teatro di quella “guerra mondiale a pezzi” della quale parla da tempo Papa Francesco.

La tragedia di questi giorni entra nelle nostre case con immagini, racconti e opinioni che colpiscono ciascuno nel modo suggeritogli dalle sue convinzioni e dalla sua sensibilità. In ogni avvenimento ci sono aspetti dei quali siamo spinti a fissare le priorità. Per alcuni può essere fermare Putin, per altri garantire nel nostro Paese i rifornimenti energetici, per altri ancora consolidare la forza militare europea, in adesione al logoro assioma latino del si vis pace para bellum (se vuoi la pace prepara la guerra).

Quanti devono raccontare questa tragedia lo fanno con negli occhi soprattutto le immagini profughi, testimonianza dolorosa del prezzo – quello vero, l’unico che conta – che alla follia della guerra pagano soprattutto le popolazioni civili. L’Europa ha aperto loro le frontiere, stavolta non solo con l’impegno delle società civili – quell’impegno che accompagna e traduce in fatti concreti la dottrina sociale e il magistero della Chiesa – ma con l’applicazione del diritto internazionale tante volte disattesa in analoghe vicende in altre regioni del mondo. Perché questa guerra si è aggiunta a quelle, spesso incancrenite da decenni, che insanguinano tutto il mondo e si sommano a povertà, pandemie, disuguaglianze che già regnano sul pianeta, soprattutto nel suo sud devastato, ai cui profughi le frontiere si sbarrano. E forse su questo aspetto l’Europa, che rivendica l’essere culla dei diritti umani, dovrebbe interrogarsi un po’ di più. Su questo come su altre politiche prevalse negli ultimi decenni.

Perché la speranza dell’umanità – e in essa la nostra – sta nel ribaltare quell’assioma in si vis pacem para pacem (se vuoi la pace prepara la pace). Bisogna volere la pace, prepararla, denunciare e contrastare quanto la minaccia. L’orizzonte geopolitico generale nel quale s’innesta l’attuale crisi ucraina, non si limita a delinearle i confini, ma sollecita una riflessione seria nelle chiavi di lettura.  E questo riguarda anche il giornalismo. Un’informazione spesso superficiale, sempre cacofonica, concentra infatti sistematicamente l’attenzione sull’ultimo evento, dando modo alla “grande politica” di lasciare irrisolte le situazioni più drammatiche.

Due punti soprattutto è necessario indagare: l’arretramento del multilateralismo nel quale tramonta l’autorevolezza dell’Onu; l’accentuata tendenza a far prevalere il diritto della forza sulla forza del diritto, connessa con le pressioni dei produttori di armi e degli apparati militari. Finora la diplomazia non ha saputo contrastare i due monoliti che si fronteggiano, lo strapotere della finanza predatoria sulle necessità sociali dell’economia reale, le autarchie, di fatto dittatoriali, che si nutrono dei cancri del nazionalismo spinto alla ricerca ossessiva del nemico. Ed entrambi hanno le armi come strumento privilegiato. Vale ovunque. Anche in Ucraina, dove non solo ora, ma già subito dopo lo scoppio, otto anni fa, della crisi del Donbass gli “aiuti” occidentali a Kiev sono stati sostanzialmente invii di armi. E, come dice sempre Papa Francesco, le guerre si fanno per vendere le armi.

Così come ormai da tempo una dimensione bellica assumono tanto la finanza quanto il commercio. Basti pensare alla quasi esclusione del sistema bancario russo dalle transazioni con l’Occidente o alla questione dei rifornimenti di gas russo ai Paesi europei. Prevale dunque il conflitto. Eppure anche energia e commerci sanno essere strumenti di dialogo e di diplomazia, ma solo in tempi di relazioni pacifiche e di volontà di mantenerle, di rendere permanente il cantiere della pace, di opporre il principio del bene comune alla scorciatoia egoistica del conflitto. Una scorciatoia che favorisce la propaganda, o meglio l’istigazione a farci mettere tutti l’elmetto, a “schierarsi compatti contro il nemico”, a considerare diserzione affermare, argomentare, testimoniare quanto la nostra Costituzione dichiara e prevede, cioè il ripudio della guerra. Una scorciatoia tanto più grave da prendere per quanti si professano cattolici, ai quali non è concesso dimenticare che Dio è padre di tutte le genti.

Le ragioni di questa ostinazione di guerra sono note, così come le responsabilità, non cancellabili dalla propaganda delle parti coinvolte. Come sempre, infatti, tutti rivendicano il diritto di difendersi. Ma il punto cruciale non sta nelle “narrazioni” delle parti, ma nella mancata determinazione a percorre strade di confronto pacifico, nell’abitudine consolidata ad affrontare le crisi come opportunità di guadagno o di consolidamento del potere all’interno e all’esterno dei diversi Paesi. In sintesi nell’assenza di una diplomazia volta alla difesa solidale di fronte alle minacce che incombono sull’umanità intera.

Ucraina, Sant'Egidio

In questo trova un ruolo e si spera delle prospettive l’azione della Chiesa cattolica e della sua “diplomazia religiosa”, non solo nel generale conteso mondiale, ma anche nella specifica vicenda ucraina, con lo sforzo del Papa e della Santa Sede di riallacciare un dialogo tra la Chiesa ortodossa russa e quella ucraina che lo scorso anno si è separata dal Patriarcato di Mosca, accentuando i contrasti tra le popolazioni ucraine filoccidentali con posizioni sempre più nazionalistiche e quelle russofone che hanno dichiarato la secessione. Questa determinazione di pace, di dialogo nutrito di preghiera da opporre all’ostinazione di guerra, è una luce che aiuta a orientarsi in questa ennesima notte.

Foto tratte dal web

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