È sempre triste per chi fa informazione rivendicare il ruolo della Cassandra inascoltata, scrivere “io l’ho detto per anni”. Tuttavia, prima di invitare a proseguire la lettura di questo articolo è doveroso fare proprio questo, avvertire cioè che quanto segue non aggiunge nulla, ma al più sintetizza notizie e opinioni con le quali negli anni chi scrive ha riempito centinaia, se non migliaia di pagine. In queste settimane nelle quali ci si interroga sulle prospettive e sui tempi per uscire dalla crisi globale causata dal Covid-19 torna ultile, per esempio,  riproporre qualche considerazione in materia di sanità e del suo progressivo degrado. Sono passati meno di settant’anni da quando Albert Bruce Sabin non volle brevettare il suo vaccino contro la poliomelite, per donarlo gratuitamente ai bambini del mondo. Oggi nella sanità internazionale non sembra esserci piu spazio per i principi di Sabin. Persino i vaccini sono un settore della ricerca scientifica ridotta a campo di battaglia di giganteschi interessi privati, favoriti dal progressivo indebolimento della sanità pubblica anche in quei Paesi, come l’Italia,  che ne avevano fatto un caposaldo della scelta di civiltà rappresentata dallo Stato sociale. Il che lascia senza tutela milioni di persone, non solo nel Sud devastato del mondo, ma anche nelle sue regioni opulente.

E vale per ogni aspetto della farmacologia, basti pensare che Brasile e India, che avevano sfidato lo strapotere dei titolari di brevetti per garantire cure a basso costo ai propri cittadini poveri e non solo a quelli – un esempio eclatante è quello dei farmaci antiretrovirali per l’Aids forniti a tante popolazioni africane – hanno dovuto in gran parte rinunciarvi per poter ottenere l’ammissione all’Organizzazione mondiale del commercio (Wto) indispensabile in un mondo globalizzato e interdipendente. Così, nella sanità mondiale  è mancata, insieme alla globalizzazione dei diritti, quella dei saperi, con lo schiacciamento sugli schemi di produzione e diffusione della farmacologia occidentale, senza un reale confronto altre tradizioni curative plurisecolari, e addirittura almeno bimillenarie nel caso cinese, ma un discorso analogo vale per l’India e per meno conosciute esperienze africane e sudamericane.

Certo non  si possono negare i successi della ricerca scientifica occidentale, basti pensare agli antibiotici e ai vaccini, ma neppure si può negare l’uso eccessivo e in alcuni casi distorto della farmacopea: per esempio il ricorso massiccio agli antibiotici forniti ai polli in batteria, per non parlare di quella forzatura della natura che da decenni si attua negli allevamenti intensivi di bestiame nutrendo animali erbivori con farine animali. Si ricordi qualche anno fa il morbo cosiddetto della mucca pazza il cui virus fu tra quelli con una mutazione che colpì gli esseri umani. In realtà, i virus del cosiddetto spillover, il salto di specie da aninali all’uomo, esistono da sempre. Per esempio quasi tutti gli studiosi della materia ritengono il morbillo una derivazione, circa diecimila anni fa, della peste bovina. Ma un tempo queste epidemie si muovevano lentamente. Oggi diventano pandemiche nel giro di qualche mese, grazie agli spostamenti sempre più veloci, ma anche alle megalopoli e alle attività estrattive, al crescente ricorso in agricoltura ad organismi geneticamente modificati, ai già citati modi di allevare il bestiame,  tutti fattori che devastano gli ecosistemi e creano squilibrio tra natura e esseri unani.

Ma non è tutto. A rendere più difficile fronteggiare epidemie improvvise di nuove malattie contribuisce il mancato coordinamento tra le diverse istituzioni, anche all’interno di una singola nazione e soprattutto a livello internazionale, che ha reso tutti più deboli di fronte a tali minacce, come sta dimostrando la cronaca di questi mesi di diffusione di un nuovo coronavirus. Tra competenze regionali, egoismi sovranistici e debolezza delle istituzioni internazionali, l’impegno dell’Oms serve a poco. È rimasto di fatto sulla carta il  regolamento sanitario internazionale (Ihr nell’acronimo inglese) varato tredici anni fa per rafforzare la difesa comune contro i rischi che il mondo globalizzato deve affrontare. Un insieme di regole e procedure che, se applicate davvero, minimizzerebbero, oltre ai pericoli per le persone, anche quelli del commercio e dell’economia in generale, due aspetti che in questi mesi hanno subito colpi pesantissimi.

Da anni, le voci più sagge, purtroppo soverchiate da una cacofonia di egoismi e pregiudizi, ammonisco che i Paesi più poveri,  quasi tutti quelli dell’Africa subsahariana, molti asiatici e diversi latino-americani, avrebbero dovuto affrontare un’ondata di malattie croniche mentre sono ancora alle prese con la secolare presenza di malattie infettive, per non parlare della malnutrizione. C’è una formula usata dagli epidemiologi per descrivere lo scenario in cui sistemi sanitari debolissimi, come quelli africani, si trovano ad affrontare le epidemie di malaria e di tubercolosi insieme a cardiopatie e altre sindromi tipo il diabete: lo chiamano “double burden of disease”, doppio onere della malattia.

Ora  anche ai Paesi ricchi, quelli che da decenni hanno fatto della sanità una questione di                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                           soldi, devono farci i conti, con tutte le conseguenze sulla salute, sulla vita quotidiana e, da ultimo, su quel tipo di economia del quale si continuano a vantare le magnifiche sorti e progressive. E non è un caso se questo virus ha trovato impreparati tali Paesi, dove ora il “burden infettivo” attrae tutta l’attenzione e quasi tutta l’assistenza, a scapito del “burden cronico”. Si, ricchi e poveri del mondo, così lontani per tanti aspetti –  prodotto interno lordo per persona, aspettativa di vita, qualità del lavoro,  quando c’è, accesso ai beni fondamentali, cibo e acqua pulita – ora hanno in comune il Double burden of disease,  figlio soprattutto  di una globalizzazione senza diritti e senza principi.

Se una nota di speranza può esserci, è che questa volta la lezione serva, che si rafforzi e diffonda la consapevolezza della necessità di considare davvero  la salute come diritto fondamentale, come proclamato da tante convenzioni internazionali troppo spesso rimaste sulla carta. E per essere tale deve essere per tutti. Perché nessuno si salva da solo. Vale per l’appartenenza religiosa e vale per quella sociale.

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