Negli ultimi decenni, quelli che Papa Francesco definisce della “guerra mondiale a pezzi”, si è assistito sempre più a un’informazione “arruolata” che rende pandemica la disinformazione propagandistica. Il controllo di verità e di attendibilità delle notizie fornite alle popolazioni è sempre meno praticato dalla stampa, spesso ridotta a inseguire il frastuono fuorviante di internet.
Un tempo la deontologia di quanti fanno informazione professionalmente imponeva loro di considerare la stampa “cane da guardia del potere”. Ma oggi quel cane sempre più non abbaia più mostrare i comportamenti devianti di chi tale potere detiene e più in generale per denunciare i pericoli che minacciano quanti dovrebbe considerare i suoi unici referenti, lettori di organi di stampa o di testate giornalistiche online, ascoltatori e osservatori di strutture informative radiotelevisive. Abbaia a comando del padrone, di chi dovrebbe controllare.
Ci sono certo diverse lodevoli eccezioni. La prima è forse la stampa cattolica grazie anche alle fonti sulle quali può contare quasi in tutto il mondo, missionari in primis. Ma non è la sola, come purtroppo dimostra – oltre ai tanti giornalisti con la schiena dritta perseguitati, imprigionati o anche solo privati del lavoro – il doloroso elenco di quelli di uccisi nelle zone dei conflitti, già allungatosi in Ucraina. In massime parte erano e sono free lance. La cosa non è irrilevante: i più esposti al pericolo sono infatti proprio i giornalisti indipendenti, quelli che le notizie devono andarle a cercare da vicino, a cercare le verità semplici che il frastuono dell’informazione contorta nasconde o strumentalizza.
Il che ci riporta alla questione della veridicità e della completezza dell’informazione sulle guerre, sulle loro cause, sui loro sviluppi. L’attuale situazione è figlia della guerra degli Stati Uniti in Việt Nam, secondo alcuni storici e analisti persa dal più potente esercito del mondo anche perché all’epoca la stampa faceva il suo mestiere, raccontava i fatti e consentiva un’informazione sostanzialmente completa, paraocchi ideologici a parte. Poi governi e apparati militari impararono la lezione. Non quella più importante, cioè costruire la pace, ma quella finalizza a far digerire la guerra alle opinioni pubbliche. Censura e disinformazione sulle vicende belliche, da rozze e sostanzialmente dilettantesche e aggirabili, si fecero più incisive e pervasive. Sintomo chiara della normalità malata di oggi è l’uso di un linguaggio volto a trasformare la guerra in un fatto meramente tecnico. Ci sono aggettivazioni malefiche per oscurare la verità: le bombe diventano “intelligenti”, le stragi di civili nelle città, negli ospedali, nelle scuole sono derubricate a “danni collaterali”, le torture ai prigionieri definite al più come abusi. E se si bombarda una festa nunziale ritenendola un raduno di terroristi, come accadde in Afghanistan, ci si limita a deprecare come conseguenza di un’informazione errata il massacro di decine e decine di innocenti.
La guerra in Ucraina non fa eccezione. In Russia l’informazione è imbavagliata per legge. In Occidente è sempre più distorcente, sempre più simile a propaganda, sempre meno ricerca seria e accurata della veridicità di fatti e affermazioni.
Il cambio di passo, o meglio di prospettiva, fu la scelta di sostituire quanto più possibile a una stampa ragionevolmente libera (ragionevolmente perché non bisogna dimenticare che la libertà di stampa non riguarda solo i giornalisti, ma soprattutto gli editori) una stampa spinta a riportare fedelmente le narrazioni del potere. Nelle dittature e nelle autocrazie è prassi consolidata (e le leggi sulla stampa varate da Putin all’inizio del conflitto ucraino ricadono nello schema). Ma l’Occidente ha persino perfezionato il sistema. I primi tentativi, palesi agli osservatori più attenti, si manifestarono nei conflitti balcanici degli anni Novanta. Ma la vera svolta ci fu con la guerra del Kuwait del 2003. Nacquero allora i giornalisti embedded (letteralmente significa introdotti), ai quali il comando americano a Daharan, in Arabia Saudita, a 250 chilometri dal fronte del Kuwait occupato, forniva “una notizia al giorno” già confezionata e censurava i pezzi.
Quelli non “introdotti” facevano il loro lavoro a rischio di fare da bersaglio ai belligeranti. Accadde con il bombardamento della Nato sulla Tv di Belgrado nel 1999 e quattro anni dopo all’Hotel Palestine di Baghdad. Per non parlare dei giornalisti uccisi dalle milizie jihadiste, soprattutto in Africa. Ma come noto l’interesse per i conflitti in Africa dei media internazionali è limitato e saltuario, sempre con l’eccezione della stampa cattolica.
Lo scopo è palese: raccontare la guerra come accettabile, persino necessaria, addirittura giusta. E allora alla disinformazione sui social si affianca una stampa sufficientemente compatta e orientata a propagare e preparare questa visione, a costruire il nemico, a sbattere in prima pagina il mostro di turno, l’incarnazione del male assoluto, dal serbo Milosevic, additato come unico responsabile dei massacri nell’ex Jugoslavia, all’iracheno Saddam, possessore di armi chimiche esistenti solo nelle false prove presentate dai governi di Washington e di Londra, dal siriano Assad, che le armi chimiche le aveva, ma le consegnò all’Onu senza averle mai usate, fino al burattinaio del terrorismo Bin Laden, il quale essendo saudita e nascosto in Pakistan rendeva necessario bombardare a tappeto Iraq e Afghanistan.
Ora e la volta di Putin, osannato per almeno un decennio da tutti i sovranisti europei, con quelli italiani in prima fila, l’amico degli Stati Uniti di Trump, oggi il nemico degli Stati Uniti di Biden e il compattatore dell’Unione europea se non in tutto, almeno nella decisione di armarsi. Perché denunciare il cedimento delle diplomazie di fronte alle pressioni degli apparati militari e dei produttori di armi ormai è raccontato come un tradimento dei valori democratici, come diserzione nella lotta contro il male.
Già, il male. Eppure la storia di questi ultimi decenni ha dimostrato vere le parole di Bertrand Russell: nessuno dei mali che si vuole eliminare con la guerra è un male così grande come la guerra stessa.
Foto tratta dal web
Direttore Responsabile
Giornalista professionista, ha lasciato a fine febbraio del 2016, pochi giorni dopo il suo sessantesimo compleanno, L’Osservatore Romano, il giornale della Santa Sede, dove aveva svolto la sua professione negli ultimi trent’anni, occupandosi principalmente di politica internazionale, con particolare attenzione al Sud del mondo.
Ha incominciato la sua professione giornalistica nel 1973, diciassettenne, a L’Avanti, all’epoca quotidiano del Partito Socialista Italiano, con il Direttore Responsabile Franco Gerardi. Nello stesso periodo, fino al 1979, ha collaborato con la rivista Sipario e ha effettuato servizi per l’editrice di cinegiornali 7G.
Ha diretto negli anni 1979-1980 i programmi giornalistici di Radio Lazio, prima emittente radiofonica non pubblica a Roma, producendovi altresì i testi del programma di intrattenimento satirico Caramella.
Ha poi lavorato per l’agenzia di stampa ADISTA, collaborando contemporaneamente con giornali spagnoli e statunitensi.
Nel 1984 ha incominciato a lavorare per la stampa del Vaticano, prima alla Radio Vaticana, dove al lavoro propriamente giornalistico ha affiancato la realizzazione, con altri, di programmi di divulgazione culturale successivamente editi in volume.
All’inizio del 1986 è stato chiamato a L’Osservatore Romano, all’epoca diretto da Mario Agnes, dove si è occupato da prima di cronaca e politica romana e italiana. Successivamente è passato al servizio internazionale, come redattore, inviato e commentatore. La prima metà degli anni Novanta lo ha visto impegnato in prevalenza nel documentare i conflitti nei Balcani e negli anni successivi si è occupato soprattutto del Sud del mondo, in particolare dell’Africa, ma anche dell’America Latina.
Su L’Osservatore Romano ha firmato circa duemila articoli sull’edizione quotidiana e su quelle settimanali. Ha inoltre contribuito alla realizzazione di alcuni numeri de I quaderni de L’Osservatore Romano, collana editoriale sui principali temi di politica, di cultura e di dialogo internazionali.
Collabora con altre testate, cattoliche e non, e con programmi d’informazione radiofonica e televisiva.
È Direttore Responsabile, a titolo gratuito, della rivista Sosta e Ripresa.
Ha insegnato comunicazione e politica internazionale in scuole di giornalismo e ha tenuto master di secondo livello, come professore a contratto, in Università italiane. Ha tenuto corsi, seminari e conferenze in Italia e all’estero. Ha tenuto corsi sull’attività diplomatica della Santa Sede in istituti superiori di cultura in Italia.
È autore di saggi, romanzi, raccolte di poesie, diari di viaggio, testi teatrali. Sue opere sono riportate in antologie poetiche del Novecento.
È tra i fondatori dell’Associazione Amici di Padre Be’ e della Fondazione Padre Bellincampi ONLUS, che si occupano di assistenza all’infanzia, e dell’associazione L.A.W. Legal Aid Worldwide ONLUS, per la tutela giurisdizionale dei diritti dell’uomo. Ha partecipato a progetti sociali per la ricostruzione di Sarajevo. È stato promotore e sostenitore di un progetto di commercio equo e solidale realizzato in Argentina.