La secolare venerazione dei viterbesi per santa Giacinta Marescotti si è rinnovata anche quest’anno, pur con le necessarie misure di prevenzione dal rischio di contagio del Covid-19, con una significativa partecipazione di associazioni e di fedeli alla Messa presieduta dal vescovo Lino Fumagalli il 30 gennaio, giorno della memoria liturgica della santa, nella chiesa a lei dedicata, già intitolata a san Bernardino, annessa all’omonimo convento delle clarisse, dove visse come suora del terzo ordine francescano, chiesa dove si trova il sacello con la sua spoglia mortale.
Nell’omelia il vescovo ha fatto appena un accenno alla prima parte della vita della santa, al secolo Clarice Marescotti, nata nel 1585 da nobile famiglia.
A farsi suora fu costretta controvoglia e visse a lungo la propria condizione claustrale condisappunto e frivolezza grazie ai privilegi del suo lignaggio nobiliare, come ella stessa ebbe modo più tardi di lamentare in sue lettere. Beninteso, non si trattò di nulla di scandaloso: “non era una Monaca di Monza viterbese”, ha precisato monsignor Fumagalli, prima di centrare l’attenzione sulla vita della futura santa dopo una conversione che la portò a essere inondata dall’amore per Cristo sofferente.
Da allora, per 27 anni fino alla morte, appunto il 30 gennaio 1640, ed
impiegò il resto della sua esistenza nel chiostro a a imitare le sofferenze del Signore sulla sua persona e ad alleviarle invece nei fratelli infelici e “scartati”. Questa azione benefica nella quale diede una direzione costruttiva alla sua indole vivace, si svolse come detto nella prima metà del ‘600: da dentro la clausura si adoperò, con le sostanze della famiglia e con un’iniziativa instancabile, al bene spirituale delle persone ed a quello materiale dei più svantaggiati. Agì tramite colloqui, lettere, persone devote, istituendo ospizi per gli anziani, confraternite per aiutare i bisognosi, istituti assistenziali (i “Sacconi”), contrastò l’eresia giansenista e riportò alla fede gli sviati. A dimostrazione, ha concluso il vescovo, che “la santità fa bene alla vita nostra e agli altri”.
Alla Messa hanno partecipato Francesco e Claudia Ruspoli-Marescotti, discendenti della famiglia della santa, rappresentanze dei cavalieri dell’Ordine di Malta e dell’Arciconfraternita del Gonfalone, il sindaco di Viterbo, Giovanni Maria Arena, e numerosi fedeli, parte dei quali, proprio per rispettare le norme anticovid, hanno seguito il rito fuori della Chiesa perevitare assembramenti.
Foto a cura di Mariella Zadro
Direttore Editoriale
Mario Mancini, nato in Roma nel 1943, dopo la laurea in scienze geologiche, con tesi in geofisica, nel 1967 e un anno di insegnamento della matematica in un istituto tecnico industriale romano, svolge per un quinquennio la sua professione di geofisico e sismologo prevalentemente all’estero, in particolare in Papua Nuova Guinea presso il Rabaul Central Volcanological Observatory e in Australia nella sezione aviotrasportata a Canberra, in entrambi i casi per la BMR Australia, intervallando le due esperienze con un viaggio di studio in Giappone nell’estate del 1970.
Rientrato in Italia nel 1972, si impiega come geofisico presso la CMP di Roma per la quale lavora per sei anni, con diversi incarichi in Italia e all’estero.
Fin da liceale, nel 1959, aveva conosciuto Tommasa Alfieri e l’Opera Familia Christi da lei fondata. La figura e la spiritualità della Signorina Masa, come i suoi discepoli chiamavano la Alfieri, resteranno per Mancini un fondamentale riferimento per tutta la vita. Laico consacrato nel gruppo maschile dell’opera già dal 1974, nel 1979 fa la scelta di dedicarsi completamente all’Opera e va a vivere nell’eremo di Sant’Antonio alla Palanzana.
Alla morte della fondatrice, nel 2000, l’intero patrimonio dell’Opera passa per testamento all’associazione Vittorio e Tommasina Alfieri, all’uopo voluta dalla stessa Alfieri e della quale Mancini era stato tra i fondatori.
Per accordi associativi, più tardi violati da persone riuscite ad assumere il controllo dell’associazione, Mancini resta all’Eremo, unica persona a risiedervi in permanenza e a occuparsene.
La nuova gestione dell’associazione, decisa a trasformare la Familia Christi da istituzione prettamente laicale e una confraternita sacerdotale anticonciliare, nel 2005 convince Mancini a dimettersi dall’associazione stessa, in cambio della promessa, purtroppo mai ratificata legalmente, di lasciargli l’Eremo.
Fino fino al 2012, questo luogo, sotto la conduzione di Mancini, che sempre nel 2005 ha fondato l’associazione Amici della Familia Christi e ha registrato presso il Tribunale di Viterbo la testata Sosta e Ripresa, anch’essa fondata da Tommasa Alfieri e della quale Mancini è direttore editoriale, svolge un prezioso compito di Centro di spiritualità e di apertura ecumenica e interreligiosa.
Nel 2012 la confraternita appropriatasi del nome di Familia Christi (poi sciolata dalla Santa Sede con riduzione allo stato laicale di tutti i suoi esponenti) in violazione degli accordi presi a suo tempo ottiene dal Tribunale la restituzione dell’Eremo.
Mancini resta a Viterbo e prosegue il suo impegno ecclesiale in vari uffici diocesani e nel comitato regionale per l’ecumenismo ed il dialogo interreligioso.