Siamo circondati in questo tempo di Natale, come ogni anno, da un’orgia di consumismo, indotto da messaggi sempre più pervasivi, che di una ricorrenza comunque cruciale nella storia dell’umanità fanno una sorta di tappa festaiola che incomincia con quella degenerazione  culturale – per non parlare di etica – chiamata halloween e si protrae almeno fino al carnevale. E se qualcuno fa riferimento a una crisi, parla di “capacità di spesa diminuita”.

Così il Natale, svuotato di senso e banalizzato, per un giornalista o per un osservatore della realtà sociale,  italiana o internazionale che sia, diventa sempre più difficile da commentare sotto il duplice, severo monito dei fatti e dell’ispirazione cristiana, dell’esame della storia come vicenda in cui incarnare il Vangelo.

Il rischio del commentatore è quello del generico appello ai “buoni sentimenti” o della semplice denuncia del travisamento del significato del giorno in cui la Chiesa fa memoria dell’Incarnazione.  Il rischio del giornalista è quello di smettere di fare – e di farsi – domande e di cercare risposte e notizie da diffondere.

Per i lettori di Sosta e Ripresa, questo articolo cerca di evitare quei rischi, nella speranza di contribuire a offrire una diversa prospettiva-

Nei manuali di giornalismo si sostiene che una notizia ben data, oltre a documentare le fonti,  debba contenere cinque elementi. In gergo si dice le cinque “W”, perché in inglese si esprimono con parole che incominciano appunto con quella lettera, cioè “who” (chi), “what” (cosa), “when” (quando) “where” (dove) e “why” (perché). E allora proviamo a seguire il manuale, anche se tra le domande relative alla “notizia Natale” ce ne possono essere alcune all’apparenza paradossali. Chi è il soggetto della notizia? Cosa è l’avvenimento che si commenta? Quando avviene? Dove accade? Perché si verifica?. Sembrerebbe facile: Gesù (chi) nasce (cosa) circa duemila anni fa (quando) a Betlemme (dove) per redimere il mondo dal peccato (perché). Quanto alle fonti, ci sono i Vangeli. Ciò detto, l’articolo sembrerebbe finito e magari sarebbe un bene perché lascerebbe spazio a penne migliori di quella di chi scrive.  Però (c’è sempre un però) nessun buon giornalista si accontenta di una prima risposta, per quanto autorevole possa essere la fonte, e cerca di scavare ancora un po’.

E allora, indipendentemente dal fatto storico accaduto duemila anni fa, se si assume il concetto che Gesù è con noi ogni giorno, in ogni situazione, anche la più semplice di quelle domande può suscitare altre domande e altre risposte. Ad esempio: oggi dove nascerebbe Gesù se per un paradosso teologico volesse tornare ad incarnarsi?

Ovviamente la risposta univoca non esiste, ci sono solo quelle determinate da opinioni personali più o meno maturate attraverso l’esame della realtà, c’è solo il più o meno ragionevole convincimento di ciascuno. Però (c’è sempre un però) il suddetto osservatore di vicende internazionali, se vuole stare ai suddetti fatti e alla suddetta ispirazione cristiana, non può ignorare che tutto il Vangelo (e tutta la dottrina sociale della Chiesa) raccontano un’opzione preferenziale per il povero. Perchè il Signore della storia è un bambino che nasce povero. Ogni giorno e soprattutto in questo giorno. Anche nella nostra storia, nella storia delle nostre famiglie, alle quali questo periodo restituisce talora un po’ di letizia o almeno di serenità, ma che in non pochi casi trova nella sofferenza e nel bisogno. E nasce nella storia drammatica di tanti popoli che da queste ore sperano, al massimo, un po’ di tregua dall’orrore.

Il Vangelo ci dice che il quel primo Natale per Maria e Giuseppe non c’era posto a Betlemme, che furono costretti a una sistemazione precaria. Il Gesù che nasce ogni giorno continua a farlo in condizioni sempre più precarie. Ciò detto, chiedo ai lettori la pazienza di seguire una breve digressione originata da un fatto personale. Qualche anno fa, mi trovai immerso in uno scambio di opinioni proprio sul significato del Natale con persone insieme alle quali svolgevo un’attività di sostegno a bambini in difficoltà. Uno dei miei interlocutori contestava una mia definizione (appunto “il Bambino che nasce”) come testo da inserire in un messaggio augurale da inviare a quanti ci sostenevano, argomentando che ci si rivolgeva  a molti che non hanno o non hanno conservato la fede. A suo giudizio dovevamo invece fare riferimento alla fine dell’anno, “come lun momento di presa di coscienza di sé in cui si tirano le somme, si pesano le proprie azioni ed omissioni, si rinnovano i proponimenti e si fanno i programmi per l’anno successivo”. Inoltre definiva un po’ infantile il mio riferimento al Bambino. Per un po’ ho pensato di rispondere, a proposito di infantilismo, che “tirare le somme, pesare azioni e omissioni, rinnovare proponimenti e fare programmi” sembra molto la “letterina” che da bambini, con più o meno spontaneità, scrivevamo per Natale ai genitori. Poi ho riflettuto sul merito delle posizioni che mi si contrapponevano. E sono appunto posizioni che sollecitano domande.

Le risposte – ovviamente personali – sono le stesse da dare alle domande “paradossali” suddette. Pur nell’assoluto rispetto di ogni convinzione, pur nella determinazione e persino nell’ostinazione del dialogo con l’altro, per il cristiano il Natale è un fatto identitario. Per il cristiano il Natale non è, non può essere una generica festa della gioia, dei doni, magari della rafforzata unità delle famiglie, non è la favola  di Babbo Natale. È storia. Anzi, è il punto cruciale della storia, è l’Incarnazione. E se di storia di oggi bisogna parlare, se sulla speranza di sempre bisogna oggi interrogarsi, allora il Dio che si fa Bambino vuole nascere povero tra i poveri, a Betlemme (di Giuda o di Cisgiordania che sia) come in ogni luogo dove il povero interpella la coscienza di tutti. Interpella l’intelletto e il cuore

E il povero più colpito è il bambino, derubato non solo del presente, ma della speranza del futuro, se non del fatto stesso di averlo un qualche futuro.

E allora a chi Sosta e Ripresa scrive conviene forse ricordare ai propri lettori e a se stessi la preghiera contenuta nei versi di un antico canto natalizio: “Luce dona alle menti, pace infondi nei cuori”.

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