“Maestro, è vero che…”
Si sa fin troppo bene che la tentazione di voler apparire a scapito del semplice essere è sempre in agguato, pronta a illuderci e a tradirci, come conferma il seguente episodio di un saggio orientale.
“Un giorno un giovane monaco chiese al suo anziano: “Maestro, è vero che è molto più facile apparire che essere? – Rispose l’anziano: E’ certamente vero che gli uomini preferiscono apparire piuttosto che essere, poiché essere significa scoprirsi di fronte a sé stessi e agli altri in nudità totale.
Il maestro proseguì: Un nostro fratello eremita aveva un protettore che abitava molto lontano dal suo eremo. Questo brav’uomo manteneva l’eremita e gli procurava cibo e le altre cose necessarie alla vita. Di solito mandavano altri a portare le provviste, ma un giorno l’eremita udì che il donatore in persona sarebbe venuto a trovarlo. E pensò: voglio fargli buona impressione, voglio lucidare tutti gli oggetti del tabernacolo, lo stesso tabernacolo e, soprattutto, mettere in perfetto ordine la mia grotta. Così pulì e riordinò tutto fino al punto che il tabernacolo faceva davvero impressione a guardarlo con i suoi vasi splendenti e le sue lucerne di olio, luminose come non mai.
Quando ebbe finito, l’eremita sedette e cominciò ad ammirare il suo lavoro e a guardarsi intorno. Tutto era lucido e pulito, con un’aria quasi irreale. Tutto era al proprio posto con ordine. Sembrava soddisfatto!
Ma…, all’improvviso, come un’amara sorpresa, si sentì un ipocrita, perché voleva apparire ciò che non era. Andò ai fornelli affondò le mani nella cenere e la sparse dappertutto. Poi rimise in disordine come era prima e come piaceva a lui.
Quando arrivò il benefattore, guardò con soddisfazione quella grotta tanto vissuta e un po’… in disordine! E gli disse: Si vede che pensi molto alla casa del cielo per trascurare così le cose della terra. E’ proprio vero – pensò tra sé l’eremita – che quando uno vuole mostrarsi diverso da quello che è, rischia molto. E a volte rischia tutto” (Il libro degli esempi, Gribaudi, Torino 1990, 32).
Perciò è molto saggio reagire alla insidiosa tentazione dell’“apparire”, perché sovente si finisce col confondere l’apparire con l’essere; non si distinguono più le due facce che si danno alla vita: quella pubblica, con la quale si ostenta correttezza irreprensibile, e quella privata, che invece è carica di povertà e di miserie; quella palese, che si offre tutta generosa e piena di premure, e quella nascosta che invece è egoista, gretta e diffidente. L’ “essere” coltiva il silenzio non le chiacchiere, la modestia e non la vuota ostentazione, il nascondimento e non l’esaltazione della notorietà.
La dea “Apparenza”
A) L’immagine di sé
La società contemporanea è realmente vittima dell’immagine; ognuno è alla ricerca perenne della propria figura, che deve essere sempre migliore. Sembra che l’apparire sia l’unico vero modo di vivere, la figura esteriore sia la sola verità della vita, la notorietà e il successo siano la suprema aspirazione. “Questa società vede nella moda il grande “business” per condizionare e omologare le persone” (A. Bissi).
La società dell’efficienza, priva in assoluto di scrupoli di coscienza, vuole che i propri collaboratori siano sempre dinamici, scattanti e intraprendenti, ed è pronta a sacrificare sull’altare della performance l’identità del singolo, tenendo ben nascoste le fragilità, le insicurezze e le angosce più segrete dietro una maschera di ostentata sicurezza.
“L’apparire si basa sul camuffamento – scrive la psicologa suor Anna Bissi -, sul desiderio di nascondere e non lasciar trapelare le nostre debolezze; è simile a un trucco, a una maschera che non permette agli altri di intravedere ciò che veramente siamo (…). Chi è preoccupato di fare bella figura o salvaguardare la propria immagine è autocentrato: ciò vuol dire che il suo termine di paragone è sé stesso, il successo, il consenso, per ottenere i quali è anche disposto a transigere sui valori in cui crede” (peccatori amati, 174-175).
L’immagine di sé sembra sia la prima e, sovente, l’unica cosa a cui badare, perché ciò che conta è lo stare in vista, il mostrarsi, fare colpo sugli altri, incuriosirli, interessarli, richiamare su di sé l’attenzione. In definitiva, l’apparenza risulta una manifestazione…necessaria. La persona non si cura di ciò che è, ma di come appare. L’immagine interessa più della realtà, l’illusione più dell’obiettività.
Il Ravasi nota con acuta osservazione “che a furia di privilegiare l’apparire, la figurea dalla pelle perfetta, si è perso il desiderio del “granello di sale”, cioè di una interiorità che è fatta di umanità, di pensiero, di sapienza. E’ per questo che le relazioni ai nostri giorni si sciolgono dopo pochi mesi: è un contatto di corpi, non un incontro di intelligenze, di sentimenti profondi, di anime” (Le parole e i giorni, nuovo breviario laico, 352).
Lo scenario della vita “è presieduto dall’immagine – scrive il padre Larranaga -, idolo di luce che seduce e avvince e che, contemporaneamente, è la miccia accesa che fa scoppiare rivalità e suscita le guerre. Sulla fascia che cinge la sua cintura si legge Apparenza; è essa che muove le molle più profonde del cuore (…). E’ una dea capricciosa che chiede devozione dagli offuscati mortali; e questi capitolano senza condizioni, e issano la bandiera bianca. E suonano la tromba e piegano le ginocchia. Non esiste peggiore tirannide” (Dalla sofferenza alla pace, p.170).
Aveva ragioni da vendere il noto drammaturgo inglese William Shakespeare quando affermava che “tutto il mondo è un palcoscenico e gli uomini sono soltanto degli attori che hanno le loro uscite e le loro entrate. E ognuno nel tempo che gli è dato recita molte parti”. E altrove aggiunge: “Una vita è un’opera di teatro che non ha prove iniziali. Canta, ridi, balla, ama e vivi intensamente ogni momento della tua vita, prima che cali il sipario e l’opera finisca senza applausi”.
La televisione, già da molto tempo assurta a suprema maestra della comunicazione, propone le icone attraenti, generate dal mondo della pubblicità: attori, sportivi, cantanti, politici, docenti…, tutti “apparentemente” felici. Si, l’apparire ha assunto valenza assoluta, indiscussa, perché è l’apparire che si propone come garanzia sicura di uno status. E a questo apparire si è disposti a sacrificare tutto: dignità, valori, onore, verità, onestà, idealità… I due idoli imperanti nella nostra società sono il denaro e il successo. Sul filo di una logica da mercato si dice: Tu vali per quel che hai e non per quel che sei; vali per quel che custodisci in tasca e non per quel che hai nel cuore. Si fa dipendere il proprio valore dai titoli conseguiti, dagli incarichi ricoperti, dalle onorificenze ottenute, e ci si appella come a ultima ratio all’ “oracolo”: Lei non sa chi sono io!
E per questo oggi “si smania per i vestiti, le automobili, le case, le brillanti feste eleganti, l’apparire nelle colonne mondane dei giornali importanti; per tutto ciò, insomma, che è apparenza. In un mondo artificiale tutto gira e rigira intorno a questa vana e seducente farfalla: l’apparenza” (Larranaga, o.c, 138). L’apparire poi costringe a indossare una maschera per nascondere il passare degli anni e per risultare sempre al top, giovani briosi e scattanti in una illusoria perenne primavera. E’ la sarabanda delle apparenze. “Le persone non sono ridicole – afferma il Leopardi – se non quando vogliono apparire o essere ciò che non sono”.
“Ci vuole coraggio – scrive la Mastrodonato – per spogliarsi dei propri travestimenti e fidarsi degli altri; per riconoscersi simili a loro nelle paure e nelle attese, nei fallimenti e nella fatica di vivere. Ci vuole coraggio anche per far pace con la propria fragilità, imparando a vedere in essa non già un limite alla propria capacità di affermazione nel mondo, bensì un tratto caratterizzante della propria condizione umana”.
E quanta tristezza e povertà nascondono certe maschere! Per questo risulta assai utile porre una saggia attenzione a un proverbio indiano che recita: “Se tieni per troppo tempo la maschera, finisci per farla diventare la tua faccia”. E così può succedere che la maschera usata e abusata può deformare il volto in modo definitivo e irreparabile.
E si può anche incappare in personalità dalla doppia vita, in personalità che sono costrette a nascondere, a fingere, ingannare, negare, alterare… L’esperienza conferma che è per tutti una enorme fatica tentare di apparire quel che non si è, o disimpegnarsi in contemporanea su due fronti tanto distinti e diversi tra loro.
E’ proprio la doppiezza di vita che il profeta Ezechiele rimprovera ai “falsi” sacerdoti: “I suoi sacerdoti violano la mia legge, profanano le cose sante: Non fanno distinzione fra il sacro e il profano, non insegnano a distinguere fra puro e impuro, non osservano i miei sabati e io sono disonorato in mezzo a loro. I suoi profeti hanno come intonacato tutti questi delitti con valse visioni e oracoli fallaci e vanno dicendo: Così parla il Signore Dio, mentre invece il Signore non ha parlato” (Ez 22,26-28).
Gesù nel Vangelo ci avverte che non si possono servire contemporaneamente due padroni: Dio e ricchezze (Mt 6,24; Lc 16,13). Non possono essere presenti ambedue nella vita, cioè l’uno e l’altro, ma o l’uno o l’altro. L’incompatibilità si vive e si esprime nel cuore dell’uomo, perché ambedue (Dio e ricchezze) vogliono possedere l’uomo nella sua totalità. L’esperienza conferma che risulta impossibile essere nel contempo al servizio pieno, gioioso e generoso di due padroni esigenti. Non è consentito barare con la vita. Il doppio gioco lo si può fare con gli uomini che hanno la vista corta, ma non con Dio, il quale conosce tutto di me e di te: i segreti, i nascondigli, i progetti, le aspirazioni, i sogni… Dunque bisogna essere realisti: s’impone una scelta decisa saggia e definitiva per evitare che la vita si dissolva nel vuoto, nella vanità, nell’effimero o che si riduca a qualche triste e breve comparsa teatrale. Un saggio orientale ammonisce che “la vita non è un problema da risolvere ma un’esperienza da vivere e vivere in pienezza”.
B) La fiera delle vanità
Con questo titolo non intendo fare alcun riferimento al noto film inglese uscito nel 2004 “Vanity Fair”, bensì a un interessante libro della letteratura sapienziale biblica: Qoèlet. In questa affascinante e inquietante fonte letteraria, l’autore fa echeggiare per ben 38 volte il severo monito del pericolo della vanità: “vanità delle vanità, tutto è vanità”. Così si apre (Qo 1,2) e si chiude (Qo 12,8) questo libretto di appena dodici brevi e intensi capitoli.
Probabilmente l’opera risale al III° secolo a. C. da un saggio ebreo, spirito irrequieto e in perenne ricerca, che si nasconde nello pseudonimo di Qoèlet, cioè “presidente dell’assemblea” o “colui che chiama a raccolta l’assemblea” per invitarla a riflettere con spirito critico su problemi di scottante attualità come, per esempio, la vita, la sapienza, il dolore, il piacere, il lavoro, la fatica, la ricchezza, la morte…”. Qualcuno designa il Qoèlet come il cantore della caduta di ogni speranza.
Molti critici moderni ritengono di aver trovato in questo autore biblico l’eco della stessa amara delusione che oggi esperimenta l’uomo della strada: “Ho considerato tutte le opere fatte dalle mie mani e tutta la fatica che avevo durato a farle: ecco, tutto mi è apparso vanità e un inseguire il vento” (Qo 2,11); “ho osservato anche che ogni fatica e tutta l’abilità messe in un lavoro non sono che invidie dell’uno con l’altro. Anche questo è vanità e un inseguire il vento” (Qo 4,4).
L’uomo nell’ottica di Qoèlet è collocato in una inquietante antinomia. Da una parte, è realmente povero, è un componente del drappello del “resto d’Israele” e vive l’abbandono in Dio per aspettarsi tutto dall’Alto. Dall’altra, è individuato come colui che ha in sé stesso il senso dell’infinito, dell’eternità (Qo 3,11b). Ecco le antinomie ridotte in uno schema: l’uomo ha sete di infinito/ E si trova alle prese con ciò che è relativo;
ricerca quel che è certo, sicuro /e deve contentarsi del provvisorio, dell’incerto; si ritrova a vivere la gioia del presente / e il presente non gli basta.
La vanità, dunque, è alla nostra attenzione! Ma che cos’è la vanità? Il corrispondente termine ebraico suona hebel col significato di “alito, soffio, vapore, respiro”, quindi indica qualcosa di inafferrabile, di imponderabile, di inconsistente; accenna a qualcosa che ha una consistenza minima, effimera; è come il fumo spazzato via anche dalla più leggera folata di vento (cf Is 57,13), è come la perlina di rugiada sulla foglia che si scioglie al primo raggio di sole.
E’ utile precisare che Qoèlet non considera la vanità delle cose in prospettiva etica, ma in prospettiva teologica, in quanto sottolinea la delusione che si cela in ogni desiderio e in ogni impegno dell’uomo. La vanità è il senso del vuoto, di amarezza, di non-senso che immancabilmente segue ad ogni impresa.
La ripetizione vanità delle vanità è una tipica espressione della cultura ebraica per indicare il grado superlativo secondo la grammatica ebraica e che possiamo renderlo così: “o immenso vuoto, o vanità somma, o vanità delle vanità, o completa assurdità” della vita.
La versione latina della Volgata traduce vanitas vanitatum et omnia vanitas. L’aureo libretto Imitazione di Cristo interpreta e completa il grido di Qoèlet con una significativa aggiunta: vanitas vanitatum et omnia vanitas, praeter amare Deum et illi soli servire (vanità delle vanità tutto è vanità, eccetto amare Dio e servire lui solo) (Imitaz. I, 1,3).
In Qoèlet manca l’eccetto, per cui nulla di ciò che esiste sfugge alla vanità. Si noti che l’aggettivo “tutto” scandisce l’intera riflessione dell’autore. Eppure già il libretto dell’Imitazione di Cristo, in perfetta sintonia con il Vangelo, ha precisato una eccezione; e cioè “non tutto è vanità”.
Vi è una possibilità per sfuggire alla visione generale di vanità e mettere al sicuro e per sempre la propria esistenza: arricchire davanti a Dio. Gesù precisa e spiega questa dichiarazione quando afferma: “Cercate il Regno di Dio…, vendete ciò che avete e datelo in elemosina…, fatevi borse che non invecchiano” (Lc 12, 31. 33).
Dunque, non è vero che tutto è vanità! Gesù propone due diversi modi di vivere, due vie da percorrere: c’è un’esistenza vissuta tutta e soltanto per sé: e questa è una vita perduta, senza futuro; e c’è un’esistenza fatta dono con generosità all’altro: ed è una vita guadagnata, e con un roseo futuro. Dunque tutto è vanità, ma non la carità, la condivisione, la comunione fraterna.
Il nudo “Essere”
L’essere è l’identità della persona
Il Mahatma Gandhi, politico e filosofo indiano (1869-1948) ricordava sovente ai suoi discepoli più attenti che “prima di fare e di dire c’è l’impegno imprescindibile di essere”, cioè di prendere piena coscienza di essere persona vera, autentica, genuina, consapevole della propria grandezza e nobiltà. L’uomo è “immagine e somiglianza” di Dio ci insegna la Bibbia (Gen 1,26-27); l’uomo è la via privilegiata per conoscere Dio dato che ne è la rappresentazione più somigliante.
L’autore ispirato del salmo 8 si ferma estatico a contemplare la grandezza di questa creatura che porta in sé l’alto sigillo del suo Creatore: “L’hai fatto poco meno di un Dio, di gloria e di onore lo hai coronato” (Sal 8,6). Dunque in questo inno si esalta la statura gigante dell’uomo e qui “si trovano riuniti, nell’equilibrio delle opposizioni feconde il cielo e la terra – scrive il biblista Remi Lack -, l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, la materia e la vita, l’infanzia e la maturità, la contemplazione e l’azione” (Mia forza e mio canto è il Signore, 231).
L’essere costituisce l’identità della persona, ciò che realmente è, la sua intima natura. E’ l’essere infatti che ci permette di collocarci nel mondo e nella società con la propria unicità. Ognuno di noi è unico, e ognuno ha la missione di dire e di compiere cose che nessuno altro può fare al posto di un altro.
La tradizione giudaica ci offre un prezioso messaggio con la solita trasparenza e immediatezza che già conosciamo: “Gli uomini, servendosi di una sola matrice, coniano tante monete, che si assomigliano l’una all’altra. Il Re dei re, il Santo e Benedetto, ha coniato la forma di ogni uomo con la matrice di Adamo. Tuttavia non troverai nessun individuo simile a un altro. Quindi ciascuno dovrà dire in tutta verità: Il mondo è stato creato per me”.
Qualcuno ha lanciato all’uomo di ogni tempo un severo monito: “Quando tu smetti di essere te stesso stai privando il mondo di qualcosa di unico che non potrà mai essere replicato da qualche altro. Pertanto essere te stesso è il dono più grande che puoi fare al mondo”. C’è un’assoluta necessità di ognuno di noi perché l’armonia dell’universo sia piena. Nessuno può assentarsi dal proprio ruolo.
Il rabbino teologo ebreo Abram J. Heschel (1907-1972) scrive: “La mia esistenza è un evento originale. Non vi sono due esseri umani uguali. L’elemento fondamentale dell’essere uomini è la unicità. Ogni essere umano ha da dire, da pensare e da fare qualcosa che non ha precedenti. Essere uomini è sempre una sorpresa, non una conclusione scontata. Ogni individuo è una scoperta, un esemplare esclusivo” (L’uomo alla ricerca di Dio, 130).
Già il filoso greco Parmenide (V° sec. a. C.) aveva a lungo riflettuto sul problema dell’essere e lo contrapponeva all’apparenza. Insegnava che l’essere dice unicità e stabilità, dice cioè ciò che rimane e non muta. Ed esemplificava il suo pensiero così: “Se io dico che una tal cosa è, intendo dire che essa rimane come è, non cambia e non scompare nel nulla. L’essere inoltre è ciò che è reale in opposizione a ciò che sembra tale, ma che è ingannevole e illusorio”.
In considerazione di questa saggia riflessione, conviene a tutti noi di riconciliarci con la propria carta di identità, perché questo singolare documento ci conferma in ogni momento quel che realmente ognuno di noi è: nome, cognome, figlio di e di…, nato a, il giorno…, domiciliato a, professione, occhi color, capelli color, segni particolari…
La carta di identità è il documento che certifica la storia essenziale di ognuno, almeno quella esteriore e, in qualche modo, anche quella interiore: origine, sembianza, età, professione…! Resta per ognuno la sapiente scelta di saperci accettare per quel che si è e anche per mettere in cantiere il progetto di diventare sempre migliore.
Capita spesso a tutti di ritrovarci davanti allo specchio e sentiamo salire dal profondo, come voce della verità, una ineludibile e inquietante domanda: “Tu chi sei?”. Ci coglie sempre di sorpresa; vorremmo eluderla, ma non è possibile, pena il pericolo di abbandonarci a un’esistenza superficiale, povera ed effimera.
Davanti allo specchio, l’apparire dovrebbe essere l’immagine perfetta del nostro essere, cioè ciò che siamo realmente: il nostro fisico, ma soprattutto la nostra mente, il nostro cuore, il nostro spirito, la parte più vera di noi stessi. “Ci guadagneremmo di più a farci vedere come siamo anziché cercare di apparire quel che non siamo” ammoniva lo scrittore e filosofo francese La Roschefoucauld (1613-1680).
Resta perciò per ognuno il dovere di educarci alla verità di noi stessi. La ricerca dell’autenticità, della verità è il primo aspetto per essere uomini veri, per risultare persone senza trucco e senza inganni. Ognuno nella propria indagine personale può precisare chi è e chi deve essere secondo un progetto dall’Alto.
Ed è cosa lodevole e da incoraggiare che ognuno, di tanto in tanto, trovi spazi e momenti di silenzio, per incontrare il proprio “io” nella verità, là nel camerino dove ci si toglie il trucco della recita e si riprende l’abito e il volto della ferialità, della realtà, della verità (G. Setti). Del resto se ne ha conferma a iosa che il vero potere dell’uomo sta tutto e soltanto nell’essere e non nell’apparire. Io valgo per quel che sono, non per quel che appaio
Tu sei quello che pensi
Il pensiero determina la vita. Il pensiero è il potente agente che imprime un chiaro orientamento alla vita. Ciò che torna sovente alla mente e al cuore è capace di conferire una precisa linea di scelta all’esistenza. Perciò sussiste una stretta interazione tra vita e pensiero.
Anzi, la qualità della tua vita dipende dalla qualità della idea che in te prevale su tutte le altre; e il pensiero che più coltivi in te influenza il tuo comportamento, le azioni, gli affetti, i programmi, gli ideali…Ogni tuo pensiero di fatto dà un orientamento alla tua vita, per cui tu più o meno sei gestore e responsabile di ciò che pensi.
Perciò fa’ attenzione ai tuoi pensieri, alle tue parole e alle tue azioni. Controlla attentamente ciò che pensi, dici e fai. Il Mahatma Gandhi rivolgeva ad ogni suo discepolo questa saggia ammonizione: “Le tue convinzioni diventano i tuoi pensieri; i tuoi pensieri diventano le tue parole; le tue parole diventano le tue azioni; le tue azioni diventano le tue abitudini; le tue abitudini diventano i tuoi valori; i tuoi valori diventano il tuo destino”. In conclusione, i tuoi pensieri creano la tua vita reale.
“Si racconta che un giorno, un giovane rivolse una interessante domanda ad un saggio anziano il quale aveva fatto vistosi progressi nelle vie dello spirito: “Mi puoi dire, maestro, chi sono io?” – “Sei quello che pensi – rispose pacatamente e con evidente convinzione l’anziano – e te lo dimostro con una piccola storia”.
Un giorno, dalle mura di una città, verso il tramonto, si videro sulla linea dell’orizzonte due persone che si abbracciavano. “Sono un papà e una mamma”, pensò un bambino innocente. “Sono due amanti”, pensò un uomo dal cuore torbido. “Sono due amici che si incontrano dopo molti anni”, pensò un uomo solo.
“Sono due mercanti che hanno concluso un buon affare”, pensò un uomo avido di denaro. “E’ un padre che abbraccia un figlio di ritorno dalla guerra”, pensò una donna dall’anima tenera. “E’ una figlia che abbraccia il padre di ritorno da un viaggio”, pensò un uomo addolorato per la morte di una figlia.
“Sono due innamorati”, pensò una ragazza che sognava l’amore. “Sono due uomini che lottano all’ultimo sangue”, pensò un assassino. “Chissà perché si abbracciano”, pensò un uomo dal cuore arido. “Che bello vedere due persone che si abbracciano”, pensò un uomo di Dio.
Ogni tuo pensiero – concluse l’anziano – rivela a te stesso quello che sei. Esamina di frequente i tuoi pensieri; ti possono dire molte più cose di te di qualsiasi maestro” (L. Tognon, Lo specchio del cuore; se il tuo occhio è limpido, in “Spirito e Vita” 391-392).
Parafrasando il noto aforisma evangelico (“dov’è il tuo tesoro là è anche il tuo cuore” Mt 6,21) possiamo affermare in tutta verità: “Qual è il tuo pensiero tale è anche la tua vita”. Vita e pensiero costituiscono un binomio inscindibile. Gesù inoltre aggiunge e precisa con una sapiente riflessione: “Se il tuo occhio è limpido, tutto il tuo corpo è luminoso; ma se il tuo occhio è cattivo, tutto il tuo corpo è tenebroso” (Lc 11,34). I due termini “limpido e tenebroso” orientano la nostra riflessione nel versante della condotta morale, sul piano del nostro vivere quotidiano; così l’occhio limpido allude alla persona semplice, trasparente, aperta, disponibile a ricevere la luce. Al contrario, l’occhio tenebroso si riferisce all’uomo che si chiude, si nasconde, si protegge dalla luce, porta le mani agli occhi per non vedere.
La persona dall’occhio limpido mostra una vita solare, perché non ha nulla da nascondere; anzi, tutto è vissuto e compiuto da lui alla luce del giorno; i suoi pensieri, come in uno specchio tersissimo, si riflettono nella sua vita quotidiana, nelle sue scelte, nelle azioni, nei programmi.
La persona dall’occhio tenebroso invece macchina nel suo cuore pensieri malvagi, calcola e preordina ogni cosa per fini personali, per scopi di astuzia e di egoismo; decide di orientarsi verso obiettivi effimeri e disordinati, trascinando in rovina l’intera propria esistenza.

Licenza in Scienze Bibliche conseguita presso il Pontificio Istituto Biblico.
Dottorato in Teologia Dogmatica conseguito presso la Pontificia Università Gregoriana.
Docente presso l’Istituto di Scienze religiose di Viterbo.Docente presso il Centro Nazionale USMI.
Maestro degli studenti teologi cappuccini dell’Italia Centrale (1967-1976).
Superiore Provinciale dei Cappuccini della Provincia Romana (1982-1988).
Presidente dei Superiori Provinciali Cappuccini d’Italia (1982-1985).
Consultore teologo della Congregazione per le Cause dei Santi (1989- ).
Visitatore apostolico di un Istituto religioso per incarico della Congregazione dei religiosi.
Docente presso l’Istituto Teologico San Pietro dal 1997.
Autore notissimo, conduttore a Radio Maria, direttore spirituale e predicatore per numerosi istituti religiosi femminili.