La celebrazione a Viterbo della memoria liturgica, il 30 gennaio, di santa Giacinta, presieduta nella chiesa viterbese a lei dedicata dal vescovo Lino Fumagalli, è stata occasione di riflettere ancora una volta sulla figura di questa donna eccezionale, al secolo Clarice dei conti Marescotti, del Castello di Vignanello (pochi chilometri da Viterbo), che in convento, dove era entrata per imposizione paterna, trovò modo di maturare una vocazione religiosa sapiente.
Imparentati con i Farnese, gli Orsini e oggi titolati come principi Ruspoli, i Marescotti si stabilirono a Vignanello nel XVI secolo, prendendo poi piede al centro di Roma nell’omonimo palazzo Ruspoli. Le fortune di una dinastia si facevano, all’epoca, specialmente attraverso le campagne belliche e quelle matrimoniali. Il capofamiglia doveva freddamente destinare la propria progenie in maniera di non disperdere l’asse ereditario: così per Clarice, nata nel 1585, quarta figlia del conte Marcantonio Marescotti e di Ottavia Orsini, che, ancora adolescente, si illude di andare sposa al Conte Capizucchi per formare una nuova famiglia, il capofamiglia decide il convento di clausura mentre la sorella minore andrà sposa. Clarice entra così nel Monastero di San Bernardino, in Viterbo, dove è già entrata una sua sorella maggiore. Secondo la mentalità dell’epoca, ella non può rifiutare, ma mal si adatta alle regole claustrali e approfittando dei suoi privilegi nobiliari si organizza, pur nella reclusione, una vita di agi poco monastici: un ricco appartamento, suore novizie al suo servizio, poca attenzione alle regole della comunità.

Dopo dodici anni di vita “fuori dal coro”, una grave malattia ed un severo padre confessore generano una vera conversione. Un po’ come avvenuto per Francesco di Assisi, la monaca recalcitrante abbraccia pienamente una vita di preghiera, di penitenza e di opere di misericordia. La forte personalità della sua natura si esprime non solo nella mortificazione fisica, ma anche e specialmente nell’aiuto ai più bisognosi pur restando nella clausura: pacifica le liti, istituisce la Compagnia dei Sacconi per aiutare i poveri, istituisce un ospizio per gli anziani abbandonati. Nella sua omelia, il vescovo Lino ha rimarcato come alcune di queste istituzioni, dopo oltre quattro secoli, siano ancora attive a Viterbo e a Roma. Alla celebrazione ha partecipato donna Claudia Ruspoli, la rappresentanza dei Cavalieri di Malta, la Confraternita del Gonfalone.
Il principale strumento di apostolato di Santa Giacinta, insieme agli incontri in Parlatorio, sono le sue lettere raccolte in un abbondante e interessantissimo epistolario, oggetto di rivisitazione e studio da parte del Centro di documentazione di Santa Rosa sull’Archivio del Monastero uno studio che è stato presentato, dopo la cerimonia religiosa, dai ricercatori Attilio Bartoli Langeli e Alessandra Bartolomei Romagnoli.
Foto Mariella Zadro

Editore e Direttore Editoriale
Mario Mancini, nato in Roma nel 1943, dopo la laurea in scienze geologiche, con tesi in geofisica, nel 1967 e un anno di insegnamento della matematica in un istituto tecnico industriale romano, svolge per un quinquennio la sua professione di geofisico e sismologo prevalentemente all’estero, in particolare in Papua Nuova Guinea presso il Rabaul Central Volcanological Observatory e in Australia nella sezione aviotrasportata a Canberra, in entrambi i casi per la BMR Australia, intervallando le due esperienze con un viaggio di studio in Giappone nell’estate del 1970.
Rientrato in Italia nel 1972, si impiega come geofisico presso la CMP di Roma per la quale lavora per sei anni, con diversi incarichi in Italia e all’estero.
Fin da liceale, nel 1959, aveva conosciuto Tommasa Alfieri e l’Opera Familia Christi da lei fondata. La figura e la spiritualità della Signorina Masa, come i suoi discepoli chiamavano la Alfieri, resteranno per Mancini un fondamentale riferimento per tutta la vita. Laico consacrato nel gruppo maschile dell’opera già dal 1974, nel 1979 fa la scelta di dedicarsi completamente all’Opera e va a vivere nell’eremo di Sant’Antonio alla Palanzana.
Alla morte della fondatrice, nel 2000, l’intero patrimonio dell’Opera passa per testamento all’associazione Vittorio e Tommasina Alfieri, all’uopo voluta dalla stessa Alfieri e della quale Mancini era stato tra i fondatori.
Per accordi associativi, più tardi violati da persone riuscite ad assumere il controllo dell’associazione, Mancini resta all’Eremo, unica persona a risiedervi in permanenza e a occuparsene.
La nuova gestione dell’associazione, decisa a trasformare la Familia Christi da istituzione prettamente laicale e una confraternita sacerdotale anticonciliare, nel 2005 convince Mancini a dimettersi dall’associazione stessa, in cambio della promessa, purtroppo mai ratificata legalmente, di lasciargli l’Eremo.
Fino fino al 2012, questo luogo, sotto la conduzione di Mancini, che sempre nel 2005 ha fondato l’associazione Amici della Familia Christi e ha registrato presso il Tribunale di Viterbo la testata Sosta e Ripresa, anch’essa fondata da Tommasa Alfieri e della quale Mancini è direttore editoriale, svolge un prezioso compito di Centro di spiritualità e di apertura ecumenica e interreligiosa.
Nel 2012 la confraternita appropriatasi del nome di Familia Christi (poi sciolata dalla Santa Sede con riduzione allo stato laicale di tutti i suoi esponenti) in violazione degli accordi presi a suo tempo ottiene dal Tribunale la restituzione dell’Eremo.
Mancini resta a Viterbo e prosegue il suo impegno ecclesiale in vari uffici diocesani e nel comitato regionale per l’ecumenismo ed il dialogo interreligioso.